venerdì 31 maggio 2013

I (LOVE) NY

Ciò che sbalordisce un qualunque Giuseppe da Vernazzano a New York City è, al di sopra di tutto,  l’overdose di libertà che gli americani si sono concessi fin dalla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. L’emancipazione personale ha raggiunto in questa città vette vertiginose, tanto che al sabato sera ciascuno è libero di andare a correre da solo a Central Park, senza per questo sentirsi dare dello sfigato. Oppure di entrare in un negozio, comprare una pistola e compiere una strage all’interno di una scuola o di un cinema.


Fotografia di Federica Boffa

Melting pot


Passeggiando per i marciapiedi, incontro ovunque il medesimo odore di fritto, effuso dalla miriade di bancarelle ambulanti che vendono hot dog e ciambelle. Per le strade incrocio le stesse facce, le stesse capigliature, gli stessi vestiti, le stesse rughe, gli stessi cenni d’intesa che si ritrovano nella maggioranza dei giovani di Bra, di Torino, delle città italiane, di ogni villaggio del mondo globalizzato dai consumi. Tutt’intorno, l’aria è particolarmente elettrizzante, frizzante, eccitante, vuoi per le temperature rigide della stagione invernale, vuoi per la corrente che il vento oceanico deposita su ogni maniglia, vuoi per l’energia elettrica onnipresente, vuoi per la tensione che i nuovaiorchesi, dinamo del capitalismo, generano ininterrottamente. Attraversando una via, mi imbatto in una insegna luminosa alquanto colorata, che dice: “Museum of sex”; gonfalone paradigmatico della contemporanea mercificazione dell’erotismo. Poco più in là, vedo una maestosa cattedrale in stile gotico, dirimpetto a un mcdonald. Qui, è chiaro più che in altri posti, come l’architettura moderna abbia trascurato quasi in toto i concetti di a-misura-d’uomo, di nicchia ecologica, di funzionalismo nella disposizione degli edifici pubblici e privati nel centro cittadino. D’altro canto, il costruttivismo maniacale, di cui gli Stati Uniti si sono fatti capiscuola a partire dalla loro fondazione e successivamente intensificatosi, a ritmi allarmanti, dal secondo dopo guerra, non avrebbe potuto condurre a un esito differente. Qui, non si incontrano le armoniose planimetrie tracciate dagli umanisti europei, o l’assetto ordinato e strutturale di una piazza, inteso come centro dedito alle attività quotidiane della popolazione, disegnato dagli urbanisti rinascimentali nelle città italiane e poi diffuso in ogni angolo d’Europa. Qui, il melting pot si è verificato non solo nella promiscuità delle razze umane, ma anche nella commistione di stili e funzioni architettonici.


Foto di Federica Boffa

"Shame on you!"

In una piazzola davanti a Central Park un piccolo gruppo di manifestanti (per lo più anziane signore) nitrisce a gran voce ogni volta che passa una carrozza trainata da un cavallo, ingaggiato per portare i turisti a spasso per il parco. Le contestatrici tengono in mano gigantografie illustranti le condizioni brutali ‒ ferite da taglio, infortuni alle articolazioni, infezioni ecc. ‒ a cui le bestie sarebbero sottoposte dai loro padroni, assolutamente incuranti della loro salute. Inoltre, agitano cartelloni scritti a mano, per denunciare lo sfruttamento che gli animali sono costretti a subire, alla stregua di un’attrazione circense. Nonostante le grida e gli insulti, i cocchieri continuano a sfilare impassibili e, quando transitano dinnanzi agli attivisti, sorridono bellamente al fine di rassicurare qualche turista leggermente preoccupato. A questo punto i dimostranti digrignano i denti e, con la bava alla bocca, scandiscono il seguente coro di protesta: «Shame on you! Shame on you!». A ben vedere, questo slogan, lanciato contro un bersaglio particolare in un’occasione specifica, in realtà potrebbe rappresentare il marchio di infamia da estendere su molti aspetti riprovevoli (alcuni dei quali trattai anche in questa sede) che gli U.S.A., consapevoli o meno, incrementano emblematicamente. In altri termini, per un viaggiatore particolarmente sensibile ai temi morali e ambientali del proprio tempo, connessi, ad esempio, al maltrattamento animale, alle emissioni di CO2 responsabili del riscaldamento climatico mondiale, allo sfruttamento di risorse e forza lavoro del Terzo Mondo, alle disumane operazioni belliche nei paesi poveri per l’accaparramento di carbon-fossile, il sentimento della vergogna è forse la prima cosa che prova nei confronti degli americani, la prima questione che rinfaccia loro. Ma “vergogna” di cosa? Se si va oltre le prime impressioni naturali, come l’indignazione immediata che scaturisce dal cuore, per analizzare i problemi col cervello, ci si accorge che il dibattito verte su altre faccende. Perché, se si riflette con cognizione di causa, ci si rende conto che non si tratta di sentimenti ma di ragioni: certi meccanismi statunitensi (e del mondo contemporaneo) sono irrazionali, non vergognosi. Torna utile la geometria delle emozioni di Spinoza tramandataci dalla sua Etica: "Non deridere, né compiangere, né detestare le azioni umane, bensì comprenderle". A costo di prendermi dell’egoista antropocentrico, penso che maltrattare i cavalli per usarli come un mero strumento utile soltanto per fare profitto, non è ignobile, bensì irragionevole, poiché dimostra l’inettitudine dell’uomo attuale nel saper costruire un rapporto sensato con gli altri esseri non viventi, che non includa ulteriori sofferenze fisiche per le bestie, né conseguenti sit-in di protesta, sorti in seguito alla sofferenza psichica che subiscono gli animalisti. Continuare a produrre secondo i dogmi di un sistema economico che disperde ogni anno tonnellate di anidride carbonica nell’aria non è affatto infame, ma illogico, giacché tale modello di consumo condurrà inevitabilmente all’estinzione in massa della specie umana, nonché dell’intero pianeta terra. E, anche senza fare riferimento a scenari futuri alquanto apocalittici, esso sta compromettendo lo stesso benessere psicofisico degli uomini nell’immediato presente, come attesta, per esempio, l’aggravarsi delle condizioni patologiche dell’essere umano, causate proprio dall’inquinamento, da uno stile vita totalmente scollato dalla dimensione naturale, da una dieta incurante della salubrità o del sapore degli alimenti, dalla riduzione della sfera sociale o dal deterioramento della qualità dei rapporti tra le persone. Parimenti, sfruttare sconsideratamente le risorse naturali e la forza lavoro degli abitanti dei Paesi sottosviluppati, non è solo turpe, ma soprattutto assurdo, dal momento che ciò significa incrementare la dose di violenza nel mondo per rinfocolare un circolo vizioso di infelicità e dolore che si riversa ineluttabilmente su noi stessi, privando in tal modo il genere umano della possibilità reale, derivante dalla cultura umana, di costruire un mondo bello e felice. Lo stesso discorso vale per la guerra e per tutte quelle creazioni umane troppo umane che impediscono la realizzazione un reale ben-essere in questa vita. New York non è vergognosa, al massimo irrazionale. 

Star System

Solitamente ho l’impressione che i lungometraggi statunitensi siano maggiormente autentici delle pellicole nostrane. I film americani ci sembrano, in qualche modo, più veraci rispetto a quelli europei, perché la differenza tra un comune cittadino americano e una star di Hollywood è assai labile. Nella propria vita quotidiana, ogni nuovaiorchese è un potenziale attore mentre, quando guardiamo un film europeo, ci accorgiamo della fiction, che dietro alla cinepresa è presente un set dove degli attori stanno recitando una parte, viste le movenze e i dialoghi così innaturali. Tuttavia resta aperto un interrogativo: sono i film hollywoodiani che descrivono la vita comune oppure quest’ultima che segue la forma e i ritmi dei primi?

Foto di Federica Boffa

"Fascismo dei consumi"

Ci si chiede come mai gli Stati Uniti non abbiano conosciuto direttamente un dittatore, un regime politico autoritario, un totalitarismo e che non ne abbiano, perciò, subito le conseguenze sulla propria pelle. Al contrario, essi sono stati l’antidoto che, congiuntamente ad alcuni fondamentali anticorpi locali, ha contribuito a debellare la piaga del fascismo e del nazismo, rispettivamente in Italia e in Germania. Subito dopo, il liberalismo americano ha avversato il contagio infettivo del virus comunista, estirpando sul nascere il rischio epidemia sovietico. Nel momento in cui in Europa si marciava su Roma e si stilava il Mein Kampf, proprio quando in Oriente nascevano o degeneravano i partiti comunisti, in America in faccia al proibizionismo ruggivano il jazz, Topolino e le suffragette, almeno fino alla Grande Depressione del ’29. In compenso, là è germogliata e si è instaurata una tirannia di altro tipo, ma anch’essa subdola, dispotica e liberticida, ovvero quella che Pier Paolo Pasolini negli Scritti Corsari chiama «fascismo dei consumi».

            Sulla propria pelle gli americani hanno invece sperimentato il razzismo, come noi europei, e non so fino a che punto esso sia stato debellato, in America come nel nostro continente.


La storia a stelle e strisce

Leggendo le targhe sui cenni storici dei monumenti, mi rendo conto che senza dubbio conosco più la Storia americana che non quella italica. E la ragione probabilmente è che gli americani hanno fatto della propria Storia un’epica universale, un romanzo storico appassionante, che emoziona colui che ne viene a conoscenza e, perciò, si ricorda più facilmente rispetto alla nostrana cronaca antiquata. La storiografia italiana è boriosa perché, paradossalmente, troppo storica, realistica, fattuale; al contrario, il passato americano si presenta nella veste di un grande racconto memorabile, una narrazione mitica continuamente alimentata e tenuta viva nel quotidiano tramite colossal cinematografici autocelebrativi e prose encomiastiche, non solamente documentata su vecchi libri impolverati delle biblioteche. Forse il riferimento è azzardato, ma il confronto tra le due storie mi fa venire in mente le concezioni di storia che Nietzsche esibisce nella sua “Seconda Inattuale”, non a caso intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita. E poco male se la fedeltà storica, l’aderenza ai fatti e il ricorso metodologico a fonti attendibili sono messe parzialmente da parte, rimpiazzate da spettacolarità delle gesta raccontate, brillantezza del linguaggio utilizzato e marketing subliminale nell’esposizione mondiale delle proprie origini. 


Foto di Federica Boffa

"Enjoy New York!"

Vagando sui marciapiedi delle avenue rimango sbalordito dal patriottismo che trasuda dalla crosta della città, attraverso la stoffa della stars and stripes che campeggia su ogni palazzo e, soprattutto, attraverso il comportamento dei newyorkesi. Un patriottismo, in un certo senso, imbarazzante per chi viene da fuori, che si sente enormemente riconoscente nei confronti di nonni generosi e disponibili i quali, se ti incontrano dubbioso con una cartina in mano, immediatamente si fermano per chiederti se hai bisogno di indicazioni, augurandoti in aggiunta di trascorrere una splendida giornata: «Enjoy New York, guy!». Specie le persone anziane esigono che tu, forestiero, non abbia assolutamente alcun tipo di intoppo lungo il tuo viaggio al centro del mondo; che ti senta nel posto più felice della terra, ove democrazia e giustizia non sono più un ideali bensì realtà concrete; che quando tornerai a casa tu possa confermare al resto del pianeta che il sogno americano continua, nonostante gli incubi e i bruschi risvegli.

            Dove vanno a finire i rifiuti di New York? Una guida sulle sue discariche sarebbe senz’altro interessante.

Fotografia di Federica Boffa

Wine tasting

Durante il soggiorno nella Big Apple ho anche modo di prendere parte a un wine tasting: un’importante degustazione vinicola su scala internazionale, programmata da un noto importatore newyorkese. La fiera si svolge nella sala congressi di un grande hotel nella East Side, allestita a puntino per l’occasione, con numerosi stand riservati ai produttori provenienti da molti Paesi diversi. Agli angoli della stanza sono stati apparecchiati dei tavoli colmi di piatti e vassoi che trasbordano di grissini, focacce, cracker e formaggi di ogni tipo. A ciascuno dei partecipanti (per la maggior parte proprietari di ristoranti, ma non mancano i “collezionisti” e i semplici appassionati) viene fornito un protocollo riportante tutti i dati dei prodotti esposti, sui cui i primi diligentemente appuntano le proprie impressioni circa le caratteristiche dei vari vini. Ma ciò che mi stupisce maggiormente è senz’altro assistere alla gara di sputi collettiva, ingaggiata dopo ogni assaggio enologico. Tutti, in seguito a ondulazioni decantanti, occhiatacce rivolte ai calici, sniffate e smorfie deformanti, sputano (proprietari di locali, “collezionisti” o meri amatori), al punto che non si capisce se il vino con cui hanno appena effettuato dei risciacqui orali gli piaccia davvero oppure no! Sembra di essere dal dentista, con la differenza che il liquido scatarrato è succo d’uva alquanto costoso, ottenuto col sudore e la sapienza di periti viticoltori, e non colluttorio verdognolo che sa di medicina. Premesso che non sono affatto un esperto del settore e che, di conseguenza, non mi soffermo sulla necessità sensoriale-valutativa, oltreché fisiologica di tale prassi (credo che sia assai complicato rimanere sobri dopo aver assaggiato una ventina di vini diversi), mi limito a esporre una considerazione generica su un evento come il wine tasting a cui ho assistito. Trovo che in situazioni come quella sopra descritta il vero protagonista in questione, cioè il vino, finisca, in realtà, per restare completamente fuori dalla scena. Ciò che conta è, piuttosto, l’atmosfera che si viene a creare intorno ad esso, l’aurea di rimandi e significati che ne aleggia sopra come, peraltro, accade con qualsiasi merce al tempo del consumismo. Pare, infatti, che, come intuisce Jean Baudrillard, il valore d’uso dei beni (stabilito in base alla funzione che un certa cosa possiede) e quello di scambio (fissato dalle leggi di equivalenza del mercato), siano stati oramai superati dal valore-segno, l’unico ancora in grado di dare un senso all’articolo. Il valore-segno non ha più nulla a che vedere con lo scopo di un prodotto, né tantomeno con la sua capacità venale: esso dipende soltanto dalle “virtù” che le mode passeggere ed effimere gli imprimono. In altre parole, il succo d’uva, non solo frutto della terra e del lavoro umano, ma anche simbolo di storia e cultura di un luogo, finisce per essere svuotato di ogni sua intrinseca qualità, per divenire quasi un’opera d’arte contemporanea, esposta in una simil-galleria, dopo la cui fruizione parziale, lo spettatore se ne libera con un getto netto all’interno di una sputacchiera. Da nettare degli dei a status symbol di importatori semidivini. Difficile stabilire una volta per tutte a cosa serva una bevanda alcolica ottenuta dal mosto d’uva lascito a fermentare: per dissetarsi, per abbinare ai cibi, per darsi un tono e una tonalità, per fare buon sangue, per combattere il colesterolo alto, per ubriacarsi, per fare cassa, per valorizzare un territorio, ecc. Come quasi ogni cosa autentica non si lascia imbrigliare in una definizione univoca, ma resta pur sempre indiscusso il fatto che il vino generalmente e primariamente si beve.

Skyline

Foto di Federica Boffa
Penso che le differenze materiali che si riscontrano a occhio nudo tra il continente europeo e il Nord America siano soltanto le conseguenze reificate di diversi apparati cognitivi, ovvero gli esiti di due modelli gnoseologici opposti. Il cervello europeo, infatti, generalmente seziona, divide, separa, mentre quello americano spazia, volteggia, si libra in regioni mentali che, al cospetto, il Cielo delle Idee platonico è un pertugio sotterraneo. In altri termini, la nostra logica argomentativa ci costringe a ragionamenti coerenti, cronometrati, che partono da determinate premesse per dedurre conclusioni misurate, attraverso inferenze dialettiche e dimostrative. Perciò siamo soliti esaminare, analizzare, frazionare, scomporre in unità più piccole un dato insieme di problemi. Viceversa, l’intelletto statunitense racimola i pezzi dell’esperienza per poi plasmare impensabili composizioni immaginative, con cui decolla definitivamente senza più badare ai vincoli terrestri. Sono portato a sostenere questa tesi dalla constatazione che solo pensando in grande e Il Grande è possibile ideare, progettare e, infine, realizzare sulla terra cose così smisurate come i grattacieli, decisamente inconcepibili per l’encefalo di un europeo, abituato a volare prudentemente a bassa quota. Certo, non è da trascurare la componente, per così dire, storica di tale differenza, ossia il fatto che nel momento in cui il Vecchio Continente era pervaso da una certa nostalgia romantica volta alla gelosa conservazione e salvaguardia del proprio patrimonio del passato, sulle immense distese abitate dai Nativi era tutto ancora da fare. In un certo senso, i padri pellegrini giunti sul suolo americano hanno potuto dare sfogo ai loro più audaci disegni, che mal si accordavano coi piani di lavoro mantenutivi della madre patria. Ciononostante, resta evidente la diversa linea evolutiva che le due tipologie di pensiero hanno seguito nel corso degli anni a venire. Salvo poi intrecciarsi, successivamente, per contaminarsi a vicenda e mettere al mondo creature mentali ibride che, nel giro di qualche anno, hanno infestato l’epistemologia dell’intero pianeta. In linea di principio, quindi, possiamo affermare, utilizzando un’altra immagine ancora, che mentre l’intelletto americano, extra-terrestre, non ha confini, illimitato come una frontiera infinita, quello europeo é un labirinto intricato, pieno di cunicoli e, per certi versi, a misura d’uomo. Una conseguenza, forse inaspettata, di tale situazione è che, contrariamente alla granitica, gravosa, gravitazionale pesantezza degli edifici europei, ciò che trasmettono generalmente le strutture americane è un inconsistente senso di leggerezza: i grattacieli paiono levarsi in cielo, cosicché New York svolazza come una bandiera a stelle e strisce. 

Ground Zero


Più procede il tragitto e più mi convinco che questo resterà probabilmente il viaggio di istruzione più interessante della mia vita, poiché non ho mai imparato tanto sul mondo. Anche se non entro in rinomati musei, non visito storiche cattedrali e nemmeno palazzi ricchi di cultura, mi imbatto in situazioni stimolanti, per certi versi, inaspettate, per altri, studiate attraverso le pagine di importanti studiosi e, ora, vissute in presa diretta sulla mia pelle. Una di queste, inaspettata, è assistere alla pausa pranzo degli operai edili a Ground Zero, dove fino all’11 settembre 2001 presidiavano le celebri Twin Towers. Adesso è in fase di realizzazione un imponente progetto di ricostruzione dell’area, sfigurata in seguito a uno degli attentati terroristici con l’impatto ‒ reale e mediatico ‒ più feroce della storia umana, le cui cicatrici resteranno aperte per lunghissimo tempo. Per tale ragione, un esercito di muratori, operai e tecnici di ogni genere sono stati arruolati per risistemare la zona, in cui, peraltro, è sorto un museo in onore delle vittime dell’accaduto e un memorial per non dimenticare il fatto. E provo irritazione quando, immobile a contemplare la reazione megalitica che stanno attualizzando gli U.S.A. nell’edificare il grattacielo più alto dell’emisfero occidentale del pianeta, proprio dove sono stati feriti al cuore, uno sciame di venditori ambulanti mi si avvicina tenendo in mano dei faldoni pieni di immagini riferite alla dolorosa vicenda, che dovrebbero rappresentare delle fedeli testimonianze della tragedia, per vendermeli. Come se fossero dei souvenir, alla pari delle tazze “I (love) NY” o dei cappellini degli Yankees. E non posso non domandarmi in che modo un modello economico, che è anche un sistema di produzione che influenza i consumi e lo stile di vita delle persone, riesca a intrufolarsi in maniera così subdola in ogni interstizio dell’esistenza, fino a speculare sulle vittime di un strage, sfruttando il loro “sacrificio” per intascare degli spiccioli. Perché qui non si tratta di tenere vivo il ricordo di uomini e donne scomparse in disastro politico, bensì di dare un prezzo a qualsiasi cosa che possa essere oggetto, in qualche modo, di compravendita, anche le vite dei defunti. E, infine, non riesco a capacitarmi di come quei venditori ambulanti di esistenze spezzate non si rendano conto del genere di merce che stanno esponendo, così immersi nel magma liquefatto del consumismo. Fanno da contraltare a queste scene raccapriccianti le pettorine catarifrangenti che indossano gli operai a riposo, le loro virili risate, le lattine di birra che stringono in mano, i caschi antinfortunistici personalizzati ad hoc con tanto di adesivi colorati e stampini vari. In mezzo a questo genuino spaccato di working class heroes resto impressionato nel vedere la quantità di giovani che svolgono questo tipo di lavoro rispetto all’Italia.

Foto di Federica Boffa

Parentesi sulla fotografia

Foto di Federica Boffa


Forse è vero che un’immagine vale più di cento parole. Per questo motivo, credo che la fotografia sia uno strumento assai valido per catturare le impressioni che un viaggio oggettivo ci concede. In molti casi, infatti, ciò che ci cerca di descrivere, con risultati più o meno soddisfacenti, mediante subordinate intricate è colto immediatamente dall’obiettivo di una macchina fotografica. Tuttavia, in questo come negli altri viaggi, quello che cerco di ottenere con la fotocamera non sono cartoline, ovvero diapositive suggestive, simili a tele affrescate, che raffigurino paesaggi da sogno, panorami spettacolari o vedute affascinanti. Anche perché non sono un fotografo di professione e, in aggiunta, non posseggo i mezzi adeguati per ottenere tali risultati. Piuttosto, il mio obiettivo è imprigionare atmosfere o stati d’animo autentici che un determinato luogo mi comunicano; oppure fermare un aspetto particolare della scena che mi si presenta davanti agli occhi. Anzi, ciò che mi interessa raggiungere attraverso lo scatto fotografico è, in un certo senso, esattamente il contrario di quanto ottenuto dalle cartoline: individuare gli elementi nascosti, i dettagli inconsueti che spesso passano inosservati che, però, sono molto più paradigmatici che non i luoghi comuni ‒ banali, standardizzati, stereotipati, finti ‒ immortalati da macchine professionali ad altissima risoluzione. Non cerco cartoline, ma immagini che colpiscono. 

True Religion

Mi trovo a metà strada tra l’imponente Trinity Church ‒ centro benessere per le anime ‒ e il New York Stock Exchange a Wall Street, ovvero il tempio pagano in cui si decidono le vittime sacrificali di tutto il mondo. Volgendo lo sguardo ai due immobili, viene da domandarsi quale dei due edifici rappresenti realmente il luogo di culto degli odierni fedeli del credo occidentale: tra Cristianesimo e Consumismo, quale é la vera religione del nostro tempo? A spazzare via ogni dubbio è la vetrina di una rinomata catena di negozi che espone costosi blue jeans alla moda, in cui si riflette la mia immagine, chiamata “True Religion”. 




Digressione soggettiva sul successo

Ovvio che il successo mi interessa! E spero che questo testo abbia successo. Quando un personaggio pubblico dichiara che il successo è l’ultimo dei suoi obiettivi, mente spudoratamente. Ma, soprattutto, egli confessa di non credere veramente nel lavoro che fa, palesando la sua incoerenza. Perché, se una persona tiene davvero alle proprie iniziative e, inoltre, pensa che le sue opere valgano qualcosa, allora dovrebbe cercare con tutti i mezzi a disposizione di divulgare le proprie idee al numero maggiore di pubblico. Se uno è convinto di essere nel giusto e vuole che anche gli altri si avvicinino un poco alla personale versione della verità, non può che desiderare il successo. In caso contrario, o sa di trovarsi nel torto o dimostra di non curarsi della verità. Certo, resta la questione del deragliamento del successo, ossia di quando non sei tu a inseguire lui, ma il contrario. In questo caso, il successo non è più un mezzo, bensì un fine che, in aggiunta, apre la via ad altri benefici i quali, però, nulla hanno a che vedere con la diffusione delle proprie convinzioni veritative. Resta, in aggiunta, il problema di non lasciarsi assecondare dai gusti del grande pubblico, ovvero di non accodarsi pedantemente alle richieste della massa, alle pretese della maggioranza ma, viceversa, insistere sulle proprie convinzioni affinché sia possibile, per così dire, convertire il mainstream. In un certo senso, la popolarità è, per un personaggio pubblico, uno strumento lubrificato che serve per diramare efficacemente un determinato messaggio. Il problema sorge nel momento in cui lo scopo della fama è la fama stessa. Tuttavia, oltre al successo, quali altri metodi conoscete per fare presa sulla gente? Anzi, in qualche modo reputo la vita e l’uomo di successo, rispettivamente, un sacrificio per il bene della collettività e un martire per la causa della verità. Poiché il segreto della felicità personale non sta nella popolarità, bensì nell’accogliente intimità di un’esistenza appartata, lontana dai riflettori, dietro alle quinte, distante dalle critiche e dai panegirici ipocriti. Non a caso Epicuro, come cura per la felicità personale, prescriveva ai suoi discepoli il seguente consiglio medico: "Vivi nascosto!". Per certi versi, è più facile nascondersi dal trambusto della scena pubblica, nella stanza privata dei cari affetti, come su di un isola beata o sulla vetta cheta e lieta di un monte solitario. Altra cosa è gettarsi nella mischia dei megafoni, nella bolgia degli annunci, nella baraonda dei giudizi, per affrontare in prima persona gli avversari del bene, lottare con impegno contro al silenzio del male e, infine, vincere l’aurea cintura della verità. Ma il successo non è certo un ingrediente indicato dalla ricetta della felicità personale. A questo proposito, si veda anche Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell'esistenza, trad. it. di Francesca Rigotti, Bologna: il Mulino, 2001

Fast Food



Entro nel megastore di un noto marchio di confetti di cioccolato, dove la vendita dei dolciumi è l’ultima preoccupazione dei commessi. Infatti, si smerciano gadget di ogni tipo, riferiti alla coppia di bonbon che sponsorizza la casa produttrice, umanizzati per la causa con tanto di occhi, ciglia, bocca, voce, braccia, mani, guanti, gambe e persino scarpe da ginnastica. All’interno della bottega, tutto ‒ ma dico tutto ‒ è marchiato con le due iniziali dell’etichetta. Che distribuisce cioccolatini colorati. Salgo al piano superiore e capisco di trovarmi nel paese di cuccagna, quando i miei occhi sono incantati da una parete senza fine, composta da tubi trasparenti stracolmi di confetti, disposti secondo una minuziosa scala cromatica a sfumare. Ogni volta che un cliente spilla la quantità di prodotto che più gli aggrada, dall’alto del tubo magicamente ne scende altro, cosicché regni l’abbondanza e l’opulenza; basta azionare lo spillatore con una leggera pressione del pollice e una cascata di dolcetti pitturati trabocca nel proprio shopper.
            I tombini che fumano forse stanno per scoppiare.

Fotografia di Federica Boffa
Per un europeo cresciuto, secondo i riti di una famiglia di origini marcatamente contadine, con un certo riguardo per il momento del pasto, balza subito all’occhio la diffusa trascuratezza nei confronti del cibo dell’americano medio. Ne sono una prova la bancarelle ambulanti a ogni crocicchio, o i fast food attivi 24 ore su 24. In particolare, mi colpisce il fatto che, nella maggioranza dei casi, gli abitanti di New York non si riservino ore-pasti definite, dal momento che mangiano cosa capita in qualunque periodo del giorno e della notte, a seconda dei borborigmi dello stomaco. Il cibo è spesso un optional di sostentamento, slegato dai concetti di cucina, dieta e nutrizione in vista della mansioni della giornata. Mi viene da immaginare che, probabilmente, mai nessun ragazzino nuovaiorchese abbia disobbedito ai ripetuti richiami della mamma la quale, affacciata alla finestra, invocava a gran voce, per l’ennesima volta: «Il pranzo è pronto!!!». Il contraltare della situazione gastronomica appena descritta sono i numerosi ristoranti italiani, cinesi, giapponesi, polacchi, messicani, dove l’arte culinaria è professata in modo eccellente e con attenzione solenne. Sarebbe anche interessante conoscere dettagliatamente l’impatto ambientale, in termini di emissioni di CO2, che produce il consumo di carne bovina dei cittadini nordamericani.


A Times Square

 


A Times Square assisto ad uno spettacolo siderale che, in un certo senso, non mi è nuovo. L’ombra artificiale che i grattacieli intorno gettano sulla “piazza” è pressoché identica a quella proiettata dalle montagne nelle valli alpine. Pertanto, ho provato la medesima sensazione di freddo e buio innaturali o, in ogni caso, prematuri, che si sperimenta già nel primo pomeriggio delle giornate bianche dedicate allo sci, quando il sole sparisce dietro alle cime innevate, lasciando avanzare un’oscurità gelida e bluastra che inghiottisce anzitempo le piste e i rifugi dell’impianto. E non riesco a capire il motivo per cui una comunità decida di circondarsi volontariamente di creste artificiali che la privano, così precocemente nel corso della giornata, di luce e calore solari. A questo proposito, mi viene in mente una scena del film d’animazione Il Re Leone, in cui Mufasa, alle prime luci dell’alba, esorta il cucciolo Simba a evitare le zone limitrofe coperte dalla penombra, perché rappresentano il regno del male: «Guarda, Simba. Tutto ciò che è illuminato dal sole è il nostro regno[1]». Il monito del padre stimola la curiosità del piccolo felino: «E i posti all’ombra, allora? [...] Credevo che un re potesse fare ciò che vuole!». Mufasa, perentorio, risponde che «quelli sono oltre i nostri confini. Non ci devi mai andare!». Il siparietto, in realtà, è una splendida metafora sulla circolarità della vita come equilibrato alternarsi degli opposti in natura. Che non è poi così distante dalla logica dei contrari eraclitea: «Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi». E’ paradossale che gli uomini occidentali esigano sempre il “bel” tempo, come condizione climatica ideale per svolgere le proprie attività quotidiane e, nello stesso tempo, si privino in modo così insensato del sole. Mi si presenta, perciò, un altro riferimento pop, tratto di nuovo da un cartone animato, ovvero i Simpson. Nell’episodio Chi ha sparato al signor Burns?, l’odioso Monty Burns, proprietario di una centrale nucleare, per cercare di rendere sempre più alta la richiesta di energia elettrica della città di Springfield, progetta una sorta di gigantesco scudo metallico, che ricopre l’intero centro abitato, per oscurare il sole. A ben vedere, se si cambiano Springfield con New York, lo scudo coi grattacieli e il sig. Burns con i capitalisti statunitensi, il risultato non è poi così dissimile. In tal senso, l’edificazione dei grattacieli o la realizzazione di uno clipeo anti-sole, in una tragedia greca sarebbero stati senz’appello condannati come inequivocabili peccati di hybris umana; trasgressioni perverse di superba tracotanza nei confronti dell’ordine naturale e, quindi, puniti dagli dei in persona. Oggi, in questo pomeriggio notturno, scattiamo a loro delle fotografie. Ad ogni modo, mi pare che la punizione inflittaci sia altrettanto severa. Perché il paradosso si manifesta anche dalle prenotazioni al solarium, dalle lampade e dalle docce abbronzanti; dall’esodo verso le località assolate che, sotto alla disperata esposizione di melanina per prendere un po’ di colore, probabilmente nasconde anche la ricerca di un po’ di calore. Umano. Ne deriva che a Times Square, a causa della luce elettrica emanata generosamente dai pixel ultravioletti degli imponenti monitor, alla stregua di un solarium gratis a cielo aperto, fa decisamente più caldo ‒ ed è tutto molto più naturale ‒ di notte che nelle ore diurne.
            Allo stesso modo, sembrano decisamente naturali anche i pupazzi dei cartoni animati che vagano per i marciapiedi di Broadway ad abbracciare turisti grandi e piccini, alla ricerca di fotografie e caloroso feedback da parte del pubblico, in cambio di pacche amichevoli, pose divertenti ed eterni sorrisi di peluche. Questi fantocci colorati non hanno affatto bisogno di parlare giacché, al posto della loro voce, alla gente comunica l’aurea che si crea intorno ad essi, l’insieme di rimandi e riferimenti che è più comprensibile di qualsiasi delle frasi registrate sulle schede di memoria dei loro modellini in scala. Quello che si consuma sulla grande avenue è un esempio eclatante di narcisismo auto-pubblicitario, un fenomeno sociale che, tra l’altro, impazza in questi anni zero governati dai paparazzi, dove tutto ciò che conta è diventare famosi, celebri, popolari e acquisire fama e visibilità mediatica. Non importa come e perché, ossia con quali mezzi e per quale motivo particolare. In questo vortice propagandistico a gossipparo sono stati risucchiati, senza eccezione alcuna, anche i personaggi dei cartoon, rendendo perciò assai labile il confine tra attore in carne e ossa e protagonista dei fumetti. L’unica differenza sta forse nel fatto che mentre le star del cinema solitamente cercano di evitare i fotoreporter e insabbiare scomodi scoop che potrebbero compromettere la loro reputazione nonché la propria attività professionale (in realtà, come sapete, parecchie anteprime sensazionali che finiscono sulle prime pagine dei rotocalchi scandalistici sono vere e proprie messinscene, studiate ad hoc per accrescere, ad esempio, la notorietà di una celebrità), i divi dei film d’animazione si offrono spontaneamente ai flash accecanti dei fan più affezionati, affinché la loro immagine di vip aumenti di valore. Non le case e i centri abitati, non gli spazi e le porzioni di cibo, bensì le mascotte dei disegni animati sono a misura d’uomo, al punto che è facile dimenticarsi che all’interno del costume è rinchiuso pur sempre un essere umano. Nella jungla floreale di lampadine, faretti, lampioni e riflettori, anche Topolino e i suoi simili antropomorfi fanno parte della fauna urbana di New York. Cosicché, nel momento in cui si sente un suono imprevisto proveniente dall’interno del pupazzo ‒ magari una lamentela per il caldo insopportabile, lasciata scappare involontariamente dall’anima del bambolotto; oppure una bestemmia automatica, azionata da un bimbo che ha schiacciato altrettanto involontariamente l’alluce del suddetto macchinista ‒ ecco che la magia si frantuma in mille pezzi, tra lo stupore dei grandi e la delusione dei piccini. Ma lo spettacolo più raccapricciante avviene quando le comparse si levano il proprio travestimento, abbattendo del tutto la quarta parete e mostrando agli spettatori nient’altro che la nudità del volto umano. E’ percepito come un’esibizione erotica vera e propria, uno striptease osceno e scostumato, uno spogliarello a luci rosse, da cui i genitori sono costretti ad allontanare i figlioletti. Le maschere in pausa, a viso scoperto: ciò che resta dopo lo show, indiscutibilmente più indecente. E mi chiedo in che modo una società all’apice del processo democratico riesca, con successo, nel tentativo di convincere i propri membri a truccarsi da Uomo-Pipistrello per esibirsi su una strada pubblica, sopportando stoicamente ‒ come dei supereroi ­‒ gli scherni dei passanti, i lampi abbaglianti degli obbiettivi e le urla dei fan d’immagini, consumatori di atmosfere.

Fotografie di Federica Boffa




[1] Walt Disney Studios IT, Il Re Leone 3D - “La lezione del mattino con Mufasa”, online, http://www.youtube.com/watch?v=N7ywhuk0WWU

Gli extra-terrestri

Gli alberi incatenati con delle lucine colorate, che da noi è diventata, tutt’al più, una stramba moda natalizia, a NYC è un ergastolo per alcune cortecce che dovrebbero attirare i clienti dinnanzi ai negozi. Sui rami delle piante più alte, invece, non è raro vedere fiocchi di nylon o stagnola, incastrati lì per caso dopo che il vento li ha sollevati da terra per farli svolazzare nell’aria. Tuttavia, hanno tutta l’aria di essere dei segnali venuti dallo spazio, come drappi annodati da extraterrestri per comunicare un particolare messaggio agli umani. In tal caso, forse indicano dei varchi di salvezza, i tronchi dei vegetali, attraverso cui potersi salvare dall’imminente fine del mondo. Ma questi nastri sembrano anche il simbolo dello sfilacciamento della società umana, i brandelli degli imballaggi di un modo di produzione alieno ai bisogni dell’essere umano, divenuto, pertanto, extra-terrestre. 

Fotografia di Federica Boffa

Il ciclo dell'acqua

Come i cinesi nel Vecchio Continente, anche gli americani ci hanno copiato. Ma con una sostanziale differenza. Essi non si sono limitati a imitare, potenziandole, le nostre tecnologie; hanno direttamente plagiato le nostre idee, realizzandole, però, in qualcosa di assolutamente concreto. In altri termini, sono riusciti a trasformare in realtà i nostri pensieri, concetti, visioni; hanno reificato le nostre utopie, ricavando, in pochi anni, materia empirica dalle nostre millenarie forme archetipe. Il processo, descritto in maniera molto acuta da Jean Baudrillard nel suo America[1], è simile, in un certo senso, a un ciclo dell’acqua su scala mondiale. In Europa il reale si è vaporizzato in ideali per divenire metafisica, una nuvola che il vento della storia ha in seguito traghettato oltreoceano. Infatti, fin dai tempi di Platone (come ci insegna, per’altro, Nietzsche nell’opera Il crepuscolo degli idoli) il mondo fisico, considerato, per una ragione poi rinvigoritasi col cristianesimo, imperfetto in quanto materiale, particolare, corporeo e, dunque, falso, è stato proiettato nei paradigmi astratti di perfezione, universalità, verità. Una radicale allergia alla tangibile vanità della carne ha reso possibile, in Europa, il radicarsi delle seguenti nozioni: utopia, critica, dialettica, ideologia, politica, morale, storia, universale, Stato, rivoluzione, illuminismo, romanticismo, fascismo. Con lo spostamento d’aria del 1492, le idee europee di giustizia sociale, libertà e democrazia hanno iniziato a cascare giù a catinelle, irrigando le sterminate praterie nordamericane dove, sino a quel momento, risiedevano i nativi pellerossa. Su questo suolo si è, perciò, concretizzato il corrispettivo materiale della metafisica europea: capitalismo, tecnocrazia, utilitarismo, neoliberismo, ironia, pragmatismo, emancipazione, individuo, particolare ‒ l’utopia hic et nunc. Successivamente, le attualizzazioni statunitensi, caricate sul cargo Consumismo e trasportate dalla corrente Globalizzazione, hanno compiuto il viaggio inverso rispetto alle rispettive potenzialità, ritornando sulla palude europea, questa volta sotto forma di copie mercificate, modellini seriali, simulacri e feticci ‒ detriti che, con la veste di articoli di compravendita, hanno inondato le coste del Vecchio Continente e che, una volta considerati rifiuti, invadono nuovamente gli oceani, dando vita ad atolli di spazzatura.



[1] v. J. BAUDRILLARD, America, trad. it. Di L. Guarino, SE, Milano, 2009

Lo Zio Sam ha colpito ancora!

Fotografia di Federica Boffa


Più che altrove, in questo posto è percepibile l’apatia o, piuttosto, l’indifferenza dell’uomo contemporaneo nei confronti delle condizioni climatiche esterne, giacché è possibile vedere un barbone imbacuccato che lotta contro il freddo, seduto a terra accanto a una donna in canottiera e infradito che gusta la sua preziosissima sigaretta. Un altro esempio mi è generosamente offerto dagli automobilisti che marciano coi finestrini abbassati e l’impianto di riscaldamento acceso. In seguito, rimango positivamente stupito del tassista che ascolta la musica lirica dall’autoradio, mentre trasporta i suoi clienti per le strade colme di clacson e bassi a tutto volume provenienti da stazioni radiofoniche hip-hop. Il fascino che New York esercita su di un europeo è travolgente. Che dire? Lo Zio Sam ha colpito ancora!

I mal-viventi


Atterrato all’aeroscalo JFK, mi si manifesta una triste verità: la segregazione razziale é ancora vigente, poiché basta guardare il colore della pelle dei lavoratori nell’aerostazione o degli addetti alla sicurezza nazionale in generale. Ovviamente, essa é esercitata in maniera assolutamente legale e democratica, come tutte le nuove forme di schiavitù volontaria al tempo del capitalismo.      Solitamente a essere visitati sono le grandi città, i musei, i luoghi di culto, vale a dire determinati luoghi fisici per ragioni turistiche, culturali o religiose. Ma si visitano anche gli amici, i conoscenti, i parenti, i malati, i carcerati. E non dimentichiamo che anche i medici specialisti visitano i loro pazienti e le persone degenti. Appena metto piede sul suolo newyorkese, provo a convincermi che quella estesa davanti ai miei occhi è una delle metropoli più grandi al mondo. Subito dopo penso che, nei giorni a venire, probabilmente entrerò in qualità di visitatore in qualche importante museo e, allo stesso modo, varcherò la soglia di edifici religiosi solenni. Tuttavia, il ragazzo di colore che, fuori dall’aeroporto, mi si avvicina per propormi cortesemente una corsa in bus fino al centro cittadino, più che altro mi comunica un senso di fiduciosa amicizia. Anche in questo caso, come mi capita frequentemente quando viaggio all’estero, ho la strana impressione, come un déjà-vu prolungato, di aver già incontrato, da qualche altra parte, questo adolescente nero. In questa occasione, la spiegazione risiede forse nel fatto che il tale rientra ad hoc nella sagoma stereotipata del rapper afroamericano, vista e rivista attraverso miriadi di fiction televisive. Pertanto, afferro che, in fondo, degli U.S.A. e, in particolare, della loro verità storica, conosco già abbastanza, forse anche di più dei fenomeni sociali prettamente italici o, più in generale, europei. La ragione è che il mondo intero parla americano e che gli americani parlano a tutto il mondo ‒ american way. Ciononostante, durante il tragitto in bus, guardando gli scenari suburbani che mi concedono i finestrini del mezzo pubblico, l’idea che più di tutte mi persuade è precisamente quella di visitare un malato. New York è uno squilibrato che cerca di nascondere, prima di tutto a se stesso, i sintomi della sua peculiare patologia. E’ un mal-vivente che si reputa benestante, ignorando imprudentemente i consigli dei medici che si mettono a disposizione per guarirlo. Di conseguenza, voglio sentirmi anche io un po’ nei panni di un tirocinante di medicina che, con tanto di camice bianco e stetoscopio, vaga tra le corsie dei vari reparti nel grande ospedale per consumo-dipendenti, shopping addicted. Ancora, in quanto mal-vivente, New York si è costruita da sola una enorme prigione a cielo aperto, che assume, però, i tratti di una gabbia d’oro, un’utopia/distopia perfettamente realizzata[1]. Sui depliant turistici non mancano affatto gli elogi encomiastici rivolti alle amministrazioni comunali presenti e passate, capaci di aver notevolmente abbassato, mediante drastiche misure di sicurezza a tolleranza-zero, il tasso di criminalità, specialmente in termini di omicidi e reati violenti. Nello stesso tempo, tuttavia, è aumentata una criminalità di altro tipo, vale a dire la mala-vita esistenziale. Inettitudine biologica; inidoneità a delineare un programma di progresso ecosostenibile, una crescita a basso impatto ambientale, che tenga conto dei limiti imposti dalle risorse naturali in esaurimento. Incapacità di abitare adeguatamente il proprio spicchio di pianeta Terra; dappocaggine nello stare al mondo in maniera razionale; inabilità a sopravvivere in equilibrio con la natura. Questa forma particolare di delinquenza, che si sta diffondendo a ritmi allarmanti nei Paesi altamente sviluppati ‒ la società del “benessere" ‒, è testimoniata dall’incompetenza nello svolgere i lavori domestici, le faccende di casa pianificate da tempo dall’eco-logia. In questo senso, l’eco-nomia deve promuovere dei cittadini casalinghi, che si prendano cura della propria dimora, in ogni sua accezione. Ricordo che, da bambino, mi svagavo a intercettare la mia umile posizione nello cosmo, costruendo mentalmente una serie di cerchi concentrici che fungessero da insiemi entro cui circoscrivere, di volta in volta, le mie coordinate geografiche. In un certo senso, applicavo nella pratica la necessità teorica globale della localizzazione: io, singolo individuo, devo avere cura del mio corpo, in quanto casa della mia persona; devo avere cura della mia cameretta; dell’abitazione dove alloggio; della via in cui risiedo; del mio quartiere; della mia città; della mia provincia; della mia regione; del territorio nazionale; del continente; del pianeta Terra (spinto da una fanciullesca attrazione astronomica di proporzioni cosmiche, includevo anche la Via Lattea, giacché nostra Galassia, e l’universo intero. Ma, se si pensa ai rifiuti spaziali che occupano la stratosfera, l’estensione del mio elenco non sembra troppo esagerata!). Il corpo del delitto di questi crimini sono i sacchi neri della spazzatura: i cadaveri abbandonati fuori dai locali, vittime dello zio Sam e del suo killeraggio silenzioso.





[1] v. J. BAUDRILLARD, America, trad. it. Di L. Guarino, SE, Milano, 2009

L'hinterland del PIL


Durante il volo transcontinentale, mi torna in mente la frase con cui inizia Tristi Tropici di Lévi-Staruss: «Odio i viaggi e tutti i viaggiatori». Odio i viaggi e tutti i viaggiatori, detto da un habitué delle esplorazioni. Sono sicuramente parole forti, che fanno riflettere circa la concezione moderna del “viaggio”, ossia la vacanza borghese del turista che visita i monumenti e i posti caratteristici di una determinata località. Ma le cartoline smerciate nei punti vendita di souvenir non raffigurano le contraddizioni delle città; i ciceroni non ci dicono nulla sulle reali condizioni di vita di tutti gli abitanti del luogo; le guide stampate riportano precise informazioni storiche, senza fare riferimento alla cronaca sulle cui vicissitudini ha preso forma la comunità. Parimenti, nei ristoranti tipici quasi mai si mangiano le pietanze davvero cucinate presso la gente locale; all’interno dei musei non c’è posto per l’arte autentica, per la cultura invisibile; i punti panoramici segnalati sulle cartine, così come le riserve naturali che ospitano le bellezze faunistiche e floreali indigene, sono stati accuratamente ripuliti dalle scorie residuali che, altrimenti, li incrosterebbero. All’occhio del turista, d’altronde, tutto deve apparire bello, pulito, caratteristico, degno di una fotografia: una scenografia tanto verosimile, asettica, spettacolare quanto artificiosa, surreale, parziale.

            Così mi domando, ad esempio, che impatto avranno sul cambiamento climatico mondiale le emissioni generate dal motore dell’aeroplano su cui sto volando. Mi chiedo quale sarà la quantità di rifiuti inorganici che i passeggeri di un volo come questo producono e, inoltre, dove finirà tutta la spazzatura prodotta. Mentre le hostess passano tra il ristretto corridoio tra le file a raccattare l’immondizia, noto che la raccolta differenziata non è praticata e, forse, nemmeno possibile in tale contesto. Faccio una media dei voli nazionali giornalieri, sommandoli a quelli internazionali; moltiplico per il numero dei passeggeri di ciascun volo e ho un vuoto d’aria. E non per colpa del pilota. In aggiunta, osservo con pungente amarezza che le pattumiere sono colme di cibo avanzato, constatandone l’ingente spreco. Provo poi a contare quante posate usa e getta sono state buttate via, quanti bicchierini in plastica; quanti involucri, confezioni, vaschette, mini-imballaggi che, se non riciclati, intaseranno le discariche suburbane o formeranno nuove sudice isolette, magari proprio in mezzo all’oceano che ora sto sorvolando.

            Le periferie sono uguali in tutto il mondo. Anzi, si può dire che vi é un’unica periferia mondiale, l’hinterland del PIL, al confine della società dei consumi[1], fatta degli scarti di quest’ultima. Allora i viaggi potrebbero servirmi proprio per scovare in presa diretta quegli elementi negativi dei luoghi visitati. Il viaggio critico...un’incoerenza?

Curioso segnale di divieto nella sala fumatori dell'aeroporto


[1] In realtà, come ragiona Zygmunt Bauman in Consumo, dunque sono, sarebbe più corretto parlare di società dei consumatori o dei consumismi, giacché ogni società umana e, più in generale, ogni comunità vivente, genera inevitabilmente dei consumi. Così Bauman: «In effetti il consumo, se ridotto alla sua forma essenziale del ciclo metabolico di ingestione, digestione ed escrezione, è una condizione e un aspetto permanente e ineliminabile della vita svincolato dal tempo e dalla storia, un elemento inseparabile dalla sopravvivenza biologica che gli esseri umani condividono con tutti gli altri organismi viventi» (Bauman, 2007, trad. it. di M. Cupellaro).

Uno gli amici non può mica sceglierseli


Gli amici sono quelli che ci sono, non quelli che si scelgono. Prima di partire passo a salutare alcuni amici, nella consueta vineria dove solitamente ci troviamo nelle nostre serate provinciali. Come d’abitudine, si chiacchiera del più e del meno, in quella tana i cui odori ci appaiono a volte nauseabondi, tanto li abbiamo respirati. I cui medesimi clienti ci sembrano talmente assidui da risultare invadenti, quasi facenti parte dell’arredamento interno, alla stregua di un prolungamento delle sedie o del bancone. E spesso ci lamentiamo della monotonia del locale, stufi delle stesse atmosfere che, oltretutto, nulla hanno a che vedere con le immagini vintage di un bar margherita o di un bar mario post-sessantottino. A tanti, dopo l’ennesima convocazione «21:30 in vineria», mossi dall’aspirazione di una radicale svolta esistenziale, sarà venuto il desiderio, a metà strada tra la rivincita sulla routine e la voglia di dimostrare agli altri che se ne può tranquillamente fare a meno, di rispondere «Non ci sono. Per un bel po’...». Salvo poi reciprocamente rivederci, puntuali, sbucare all’angolo del viottolo e dirigersi, con lo guardo puntato sulla strada, verso l’uscio del nostro rifugio antiatomico.

            Informo loro sui dati del volo e sulle ultime novità circa il mio viaggio, tra calcoli del fuso orario e conversioni euro/dollaro. Dopodiché, è giunta l’ora di congedarmi e, molto stranamente, durante il commiato, i miei amici già mi mancano. Abbastanza inspiegabilmente ‒ dopotutto, sto per andare al centro del mondo! ‒, provo una certa invidia per la serata (certamente mediocre) che trascorreranno senza di me, cosicché una lieve riottosità a partire, causata dalla nostalgia di casa (seppur ancora in casa...), mi infastidisce.

            Sull’aereo realizzo che uno gli amici non se li può mica scegliere. Perché sono come il proprio nome e il proprio cognome, come il luogo d’origine e il giorno di nascita, come il codice fiscale e il colore della pelle. Anzi, gli amici sono una sorta di seconda pelle, che cresce insieme a noi con le cicatrici, i lividi e le carezze che la vita ci riserva. Quelli che chiamiamo “migliori amici”, in realtà, non hanno nulla di particolarmente migliore rispetto agli altri conoscenti. Semplicemente, sono stati più presenti (fisicamente o in senso lato) durante la nostra vita ‒ una pelle più aderente. Da ciò ne deriva che gli amici non sono giusti né sbagliati, né buoni né cattivi; come le nuvole del cielo, sono. Nonostante questo, sappiamo benissimo che le nuvole vanno e vengono, cambiano forma e ‒ qualcuna anche prima del previsto ‒ spariscono. Allo stesso modo, la pelle col passare del tempo si squama, si trasforma e, una volta morta, cade. Ovviamente, noi possiamo intervenire attivamente in questo naturale processo biologico, decidendo di avere cura della nostra epidermide rigenerando i tessuti, oppure accelerando il loro decadimento per disfarcene volontariamente. Ma, prima della presa di consapevolezza, prima dei giudizi morali, con gli amici dobbiamo necessariamente conviverci, che ci piaccia o meno.

Prefazione (2)


Oltre ai viaggi soggettivi e a quelli oggettivi ci sono, inoltre, le vacanze, vale a dire quelle del turista in villeggiatura, dove quasi sempre il viaggio è totalmente assente, oggettivo o soggettivo che sia. Nel dettaglio, le vacanze sono le ferie obbligate, i meritati giorni di riposo (?) che si devono fare per forza, caratterizzati da un faticosissimo lavorio di pianificazione alle spalle, al fine di scongiurare qualsiasi intoppo che possa ostacolare la nostra tranquilla gita fuori porta, votata al relax per curare lo stress accumulato durante l’anno. Sebbene spesso capita che le tanto sognate ferie si trasformino in gite all'inferno a causa di spiacevoli soprese. In particolare, non capisco la ragione per cui, in questi casi, ci si affidi a una rinomata agenzia di viaggio, la quale si preoccupi di organizzare a puntino ogni dettaglio al posto nostro, cosicché, una volta giunti a destinazione, l’impressione sia quella di trovarsi esattamente a casa propria. A questo punto, tanto vale restarci, a casa, non vi sembra? I non-viaggi, a questo punto, sono le vacanze fatte di villaggi turistici, di crociere criminali, di visite guidate, di cartoline ipocrite, di souvenir che nulla hanno di tipico o autoctono. Quelle dove, in fondo, si svolgono le stesse attività che riempiono la nostra quotidianità in patria, come frequentare locali di tendenza, dedicarsi allo shopping, andare a fare apericena e andare a divertirsi nei club; con la sola differenza che nelle mete turistiche si spende, in genere, molto di più, specialmente se si è in alta stagione. Le vacanze rappresentano, dunque, il non-viaggio per eccellenza, in cui non si sperimenta mai l’incontro autentico con l’alterità. Si badi bene che non biasimo affatto il modello appena descritto di ferie e, d’altra parte, non mi permetterei mai di indicare a una persona dove e come svolgere le proprie vacanze! D’altronde, de gustibus non disputandum est, giusto? Durante il grande viaggio terrestre, anche noi siamo stati in vacanza e abbiamo, in certe occasioni, fatto propriamente le ferie. Infatti, da esse imparammo nulla, né su noi stessi né sulla realtà che ci circonda. In conclusione, mi limito solamente a constatare che i viaggi sono tutt’altra cosa e che, in aggiunta, gran parte di coloro che si autoproclamano accaniti viaggiatori, cittadini del mondo ‒ non me ne vogliano, ma è la cruda verità ‒ spesso non sono altro che esotici abitudinari, chiocciole xenofobe che non riescono ad abbandonare la propria dimora quotidiana. Sono certo che Lévi-Strauss si riferisse a ciò, quando redasse il lapidario incipit di Tristi Tropici.


            La mia è la situazione di un cittadino europeo atterrato, per ragioni in qualche modo fortuite, nel Nuovo Mondo: dall’angusta e vetusta Europa, alla gigantesca modernità statunitense. Durante questa esperienza in terra straniera ci sono stati, come capita quasi sempre in tali occasioni, momenti di viaggio squisitamente soggettivo e periodi di viaggio oggettivo in senso stretto, alternati a intervalli di autentica vacanza. Tuttavia, per quanto riguarda i miei propositi socio-filosofici, considero maggiormente interessanti i viaggi oggettivi, data la volontà di capire il mondo in cui siamo immersi al fine di intercettarne i fenomeni preminenti e le contraddizioni che essi manifestano o, il più delle volte, nascondono parzialmente. A tal proposito, riporto fedelmente un promemoria, datato 10 marzo 2013, tratto dal mio sparpagliato e sparuto diario di viaggio:


                N. B. per l’apprendista filosofo: lasciare da parte i propri crucci esistenziali; risparmiare ai possibili fruitori le              magagne con se stesso, le incapacità, l’inettitudine.  


Il breve memorandum esprime l’intenzione di sottrarre il lettore dall’obbligo di doversi sorbire, ancora una volta, i tormenti personali che affliggerebbero un uomo nella sua battaglia esistenziale contro il resto del pianeta e contro se stesso. Concediamo, infatti, questo spazio ‒ insieme all’onere di riempirlo con soluzioni più o meno efficaci ‒ alla letteratura, alla poesia, alla musica, all’arte in generale. Ai filosofi riserviamo, invece, il compito di studiare i problemi del proprio tempo e, in aggiunta, seppur con ampi margini di tolleranza, l’ufficio di proporre delle valevoli strategie per affrontarli. Ciononostante, rileggendo gli appunti sconnessi che mi sono portato a casa in seguito al viaggio, ho pensato che, in fondo, non sarebbe stato corretto epurare, come dopo a un numero di prestigio, alcune considerazioni sul mio conto, sgorgate dall’aver respirato a pieni polmoni l’atmosfera inedita. In primo luogo, proprio perché esse sono scaturite da quella esperienza particolare, appartengono ad essa e, perciò, non è escluso che, fuori dal determinato contesto, non sarebbero mai germogliate. In secondo luogo, ho creduto che, forse, le meditazioni in questione potrebbero andare al di là della mera vicenda personale e, come tali, rivolgersi anche ad altri destinatari, oltre al sottoscritto. In ogni caso, assicuro fin da subito l’intollerante agli aforismi simil-sentimentali o l’allergico agli spiritualismi romantici ‒ come, per certi versi, lo sono anch’io ‒ che, nelle pagine che seguiranno, i monologhi del microcosmo psichico saranno assai minori rispetto alle riflessioni oggettive sulla realtà statunitense. Di conseguenza, il risultato è un testo ibrido, il cui corpo è costituito dalle digressioni socio-filosofiche che i luoghi di New York mi hanno comunicato, agghindato, però, di ponderazioni  più intime, circa l’esistenza.      



Viaggio. Come tutti.

Finché ci saranno esseri umani, ci saranno luoghi.

Finché ci saranno luoghi, ci saranno viaggi.

Finché ci saranno viaggi, io ci sarò.

Prefazione (1)


Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

(Fabrizio De Andrè, “Anime salve”)

 

Odio i viaggi e i viaggiatori.

(Claude Lévi-Strauss, “Tristi Tropici”)

 


Struttura del viaggio. Fase uno: pianificazione meta, itinerario e programma in loco. Fase due: partenza, tragitto di andata, arrivo a destinazione, soggiorno; ripartenza, tragitto di ritorno, rientro a casa. Ma che cos’è un viaggio? In linea di principio sono solito distinguere due forme di viaggio, quello soggettivo e quello oggettivo. Il viaggio del primo tipo è una sorta di percorso di formazione, un’escursione interiore alla scoperta di se stessi, un cammino esistenziale durante il quale il viandante esplora i luoghi più nascosti del proprio io, percorrendo i sentieri dello spirito che andranno a costituire la mappa della sua biografia. Il viaggio soggettivo, pertanto, è fatto principalmente di incontri, di dialoghi, di avventure; di esperienze sensoriali interpersonali volte ad arricchire il proprio bagaglio di vita. In questo caso, la destinazione del tragitto è, il più delle volte, assolutamente ininfluente, giacché si possono visitare i monumenti del proprio ego anche a pochi passi dal rispettivo luogo di nascita. Viceversa, rivestono un ruolo di primaria importanza i compagni di viaggio che, insieme a noi, intraprendono l’avanscoperta esistenziale e, in aggiunta, le persone che incrociamo nelle varie tappe. Per il semplice motivo che non esiste alcun io senza il contributo vitale del tu; privata della differenza dell’altro, nessuna personalità può plasmarsi; nessuna identità riesce a maturare se non intrecciandosi con diversi innesti caratteriali, perché soltanto le forme ibride sono in grado di sopravvivere. Ne consegue che, da un viaggio di questo genere, ciò che riportiamo a casa sono solitamente i ricordi, spesso stampati su fotografie raffiguranti occhi rossi in primo piano, o ripresi attraverso filmati di improvvisati cineoperatori, alle prese con videocamere pseudo-professionali. E gli aneddoti, le storie surreali pompate all’inverosimile o, comunque, edulcorate con qualche particolare iperbolico, le quali ci fanno fare bella figura durante le cene con gli amici, lasciando loro a metà strada tra lo stupore, l’invidia e una ragionevole dose di scetticismo. In breve, il viaggio soggettivo tocca i sentimenti, le emozioni, l’inconscio; assume tonalità calde, ci aiuta a comprendere meglio il cosmo caotico che abbiamo dentro e scava sotto la nostra pelle ‒ è roba di cuore.

            Il viaggio oggettivo, invece, è una gita alla scoperta del mondo esteriore, una passeggiata circospetta tra gli enti che abitano la realtà, tra le gli esseri viventi e quelli inanimati, tra gli individui e le cose che popolano un determinato sito geografico. E’ perciò composto di passi, di osservazioni, di ascolti che corrispondono alla base sensuale ove fermenterà il concime su cui il cervello, successivamente, lavorerà per dare luogo a concatenazioni argomentative e riflessioni mentali. In altri termini, l’elemento empirico recepito durante il percorso fungerà, assimilato e rielaborato, da materiale teorico per l’attività celebrale vera e propria. A differenza del primo, in cui il soggetto interviene attivamente nelle vicende empiriche scrivendo la propria storia, il viaggio oggettivo prende spesso il sopravvento sul singolo, che rimane passivo nei confronti del reale, a subire l’impatto che gli edifici, i paesaggi e gli abitanti della zona esercitano su di lui. Di conseguenza, mentre il viaggio soggettivo è per lo più legato alle relazioni che l’esploratore instaura con gli altri (oltre che con se stesso), il secondo tipo di viaggio dipende maggiormente dalle suggestioni, dalle impressioni, dalle sensazioni che il nuovo territorio suscita in lui, come input di ragionamento concettuale. In questo senso, la località scelta come meta è molto rilevante, dal momento che a parlarci sono le entità precipue di quel determinato luogo fisico, dalle costruzioni umane alla morfologia naturale, dalle condizioni climatiche alle espressioni culturali del popolo. Di scarso rilievo, invece, appare la comitiva con cui condividiamo l’esperienza. Anzi, il più delle volte, una compagnia troppo rumorosa rischia di coprire le parole del posto visitato, distraendoci dalla nostra attività ricettiva. Per questo, è consigliato viaggiare oggettivamente da soli, al fine di afferrare quanto più possibile dai nuovi spazi occupati. Per questa tipologia di viaggio, la fotografia può rappresentare un ottimo strumento di ricezione, in parecchie circostanze anche più efficace del taccuino, su cui l’apprendista esploratore dovrà annotare idee, spunti, bozze che costituiranno i dati che, una volta assemblati in una forma logica, diventeranno ‒ tu chiamale se vuoi ‒ meditazioni socio-filosofiche. In sostanza, il viaggio oggettivo dovrebbe aumentare la nostra comprensione del mondo esterno, che si mostra nella sua concretezza e ci parla mediante il suo linguaggio specifico, di cui dobbiamo decifrare grammatica e semantica.

            Nella pratica, al di là delle astrazioni teoretiche, in ciascun viaggio autentico è possibile ritrovare sia il momento soggettivo che quello oggettivo. Assai di frequente, infatti, accade che i due aspetti del viaggio sopra esaminati convivano, alternandosi l’uno con l’altro a seconda delle situazioni che si vengono a creare durante il soggiorno in una terra straniera. Ad ogni modo, è anche vero che esistono viaggi maggiormente soggettivi e altri principalmente oggettivi. Tuttavia, questa distinzione non ha un carattere assiologico: è sbagliato sostenere che l’uno è migliore dell’altro o viceversa. Essa è, in verità, semplicemente una divisione teorica, che un aspirante filosofo si sente in dovere di formulare, affinché il suo scritto appaia più sistematico, accademico, autorevole. Chiarisco fin da questo momento, però, che le pagine che seguiranno, come il lettore potrà constatare di persona, hanno davvero poco di sistematico, accademico e autorevole. Il metodo che si è scelto per la composizione del qui presente lavoro, anzi, è piuttosto disarticolato, poiché esso procede in maniera assai irregolare, fatto com’è di proposizioni sconnesse tra loro e di una paratassi ridondante. In ogni caso, non ho potuto fare a meno, soprattutto a livello inconscio, di affidarmi alle indicazioni stradali di alcuni autori classici della sociofilosofia letteraria, quali, tra gli altri, Cesare Pavese, Jean Baudrillard e Alexis de Tocqueville. A tal proposito, nell’errare tra le strade di New York, mi sono spesso sentito come trasportato sulle spalle di questi giganti del pensiero, letteralmente guidato dalle loro acute riflessioni critiche sulla cultura americana, alla stregua di un visitatore che segue attentamente le spiegazioni del proprio gruppo di ciceroni. Più dei caratteristici taxi gialli, sono questi pensatori che mi hanno portato in giro per le strade della Grande Mela. Ciononostante, non era mia intenzione scrivere un saggio canonico ‒ fatto di note a piè di pagina, citazioni dirette e dettagliata bibliografia ‒ sulla società statunitense, anche perché, sinceramente, non ne avrei le competenze e i mezzi adeguati. Perciò, ho volutamente evitato questo approccio, per così dire, ortodosso nella stesura delle pagine che avete davanti agli occhi. Parimenti, non volevo nemmeno che questa opera fosse esclusivamente un mero diario di viaggio, ossia un resoconto descrittivo dei luoghi visitati e delle suggestioni raccolte. Il risultato finale, quindi, è un volume spurio, in cui impressioni personali si intrecciano a speculazioni astratte, delle quali non può dirsi esattamente fino a che punto esse nascano dalla mia originale attività celebrale piuttosto che dal riadattamento di intuizioni già appartenute a precedenti studiosi. D’altro canto, la concezione del sapere che ho maturato sino a oggi è proprio quella che esso non sia un possesso quasi massonico di monopolio dipartimentale, bensì bene collettivo che, di volta in volta, si trasforma, a seconda del fruitore che momentaneamente ne fa uso. Da questo punto di vista, a rigore logico un vero e proprio diritto di copyright forse non esiste, giacché i pensieri non sono proprietà privata di un intellettuale, quanto, piuttosto, assimilazione, digestione e modificazione di concetti altrui ‒ come un’incessante processione di idee, una continua trasmigrazione di categorie della ragione, reincarnazione autenticamente spirituale. Ecco perché, a ben vedere, le nozioni culturali non sono poi così diverse dal cibo di cui ci nutriamo. E se è vero che con la cultura propriamente non si mangia, è altrettanto vero che non si vive di solo pane. Detto ciò ‒ vi era già arrivato Ludwig Feuerbach ‒, provate un po’ voi, se ci riuscite, a ragionare, con lo stomaco vuoto!

giovedì 30 maggio 2013

“Cloud Atlas”: Tempo, Verità, Libertà




Ha suscitato scalpore e curiosità – non solo nel mondo della settima arte – la recente notizia della “metamorfosi” delle sorelle Wachowski. Infatti, ora anche Andy (nato Andrew) ha rivelato la sua “evoluzione” come Lilly. In passato era stato il fratello maggiore, ossia Larry (nato Laurence) a trasformarsi in Lana. I due geniali cineasti di Chicago, divenuti famosi dopo aver diretto la spettacolare trilogia di The Matrix, sono perciò usciti allo scoperto facendo pubblicamente outing e palesandosi come donne transgender. Cambiare corpo per trovare la propria identità: la saga degli ex fratelli Wachowski sembra già di per sé una intrigante sceneggiatura per un eccentrico movie hollywoodiano.
D’altra parte, temi quali i concetti di reincarnazione e transfer spirituale, rappresentazione e transizione, universi paralleli e destino sono tutti ben presenti nelle loro pellicole. La poetica dei loro film, effettivamente, è incentrata sulla costante contaminazione di generi, sul duello tra reale e virtuale, com’è tipico dell’estetica del postmoderno o delle filosofie orientali. D’altronde, nell’epoca della bioingegneria e della robotica, le questioni dell’ibridazione tra uomini e animali, OGM, chirurgia plastica, cyborg e intelligenze artificiali non sono più oggetto di fantascienza. Inoltre, l’ideale buddista del bodhisattva (“essere un’illuminazione” in sanscrito) – che prescrive la regola aurea secondo cui tutte le cose esistenti nell’universo sono unite da un rapporto d’interrelazione e d’interdipendenza, similmente alla metafora della rete di Indra, o al Tao come unione di yin e yang – non sembra molto lontano dalla lezione dell’ecologia, per cui ogni organismo è intrecciato nel tessuto ecosistemico del rispettivo ecotopo. E che cos’è poi il karma, se non l’accento sulle conseguenze morali delle scelte passate che di fatto ereditiamo e che condizionano le (ri)nascite future?
Ecco il nucleo concettuale e narrativo su cui è costruito Cloud Atlas, film del 2012 scritto e diretto dai/dalle fratelli/sorelle Wachowski, insieme a Tom Tykwer. Il lungometraggio, tratto dal romanzo L'atlante delle nuvole di David Mitchell, intreccia infatti sei storie ambientate in luoghi e tempi diversi, legando personaggi e situazioni tramite riferimenti e citazioni interne (ad esempio, la voglia a forma di stella cometa che contrassegna il corpo del protagonista messianico intenzionato a cambiare il mondo in cui vive). Nel dettaglio, gli episodi narrati sono: “Il Viaggio nel Pacifico di Adam Ewing” (metà ‘800); “Lettere da Zedelghem” (anni ’30 del XX secolo); “Mezze vite – Il primo caso di Luisa Rey” (anni ‘70); “La tremenda ordalia di Timothy Cavendish” (epoca contemporanea); “Il verbo di Sonmi~451” (futuro distopico); “Sloosha Crossing e tutto il resto” (futuro post apocalittico). Cloud Atlas è, da questo punto di vista, un’opera ricchissima di contenuto, confezionata in una forma maniacale e visionaria. Pellicola fantasmagorica, colma di citazioni colte (due su tutte Solzenicyn e Soylent Green), che si colloca all’interno del genere distopico, andando a trattare in maniera iperbolica la critica all’«ordine naturale prestabilito» dello status quo e, di rimando, la possibilità di emancipazione da esso. Film lungo e largo nello spazio e nel tempo, che incastona sei storie particolari in un’unica grande Storia.
A ben vedere, tutti i diversi argomenti che si dipanano nelle varie vicende (rispettivamente schiavismo, omofobia, femminismo, senilità, consumismo, sopravvivenza) rientrano nella macro-tematica della Libertà, presupposto fondamentale per il raggiungimento della Verità, occultata e maneggiata dal potere di turno. Una storia diacronica dell’umanità, perciò, che affronta il Tempo con un’apertura di prospettive mostruosa: dal tempo lineare e vettoriale al ciclico eterno ritorno dell’eguale. Sei racconti accomunati da un medesimo schema narrativo, incastrati – come preziose pepite – l’una con l’altra grazie, in primo luogo, ad elementi che fungono da “staffetta” tra le sequenze (ad esempio, la corrispondenza epistolare dei due innamorati, la statua della divinità nel tempio/cimitero, il diario di bordo messo sotto la gamba di un tavolo!) e, in secondo luogo, alla presenza dello stesso cast, truccato e trasformato di volta in volta con risultati stranianti. La Libertà vista in sei differenti contesti storici, dunque, e attraverso altrettanti registri narrativi: dalla vicissitudine comica, quasi picaresca del vecchio editore che organizza la fuga da una casa di cura per anziani, fino alla tragica epopea della donna «artificio» nella Nuova Seul.
Ogni vicenda presenta una situazione di segregazione, da quella letterale dello schiavo ai tempi della lotta a favore dell’abolizionismo, a quella assai meno appariscente della prigionia dei consumi al tempo del capitalismo sfrenato. All’interno di queste galere dell’anima umana si nascondono degli eroi, coloro che in qualche modo sanno oltrepassare la situazione alienante del presente. Sono i redentori del genere umano, quello strato di reietti e perseguitati di ogni razza e colore, direbbe Herbert Marcuse, ancora in grado di superare le barriere mentali della propria epoca, fatte di pregiudizi e conformismo conservatrice, che celano «il vero vero». Costoro rappresentano i reali soggetti rivoluzionari capaci di spezzare il circolo vizioso che imprigiona il presente, caratterizzato dalle contraddizioni che il Potere ogni volta produce e mantiene nell’ombra.
Il Male si incarna qui nelle forme politiche autoritarie della storia: i proprietari terrieri e schiavisti del ‘600, il nazismo e le superstizioni razziali tra le due Guerre Mondiali, i detentori delle risorse energetiche come petrolio ed energia atomica negli anni ’70, i fedeli del dio denaro del XXI secolo, le holding multinazionali di un futuro prossimo alle porte e, infine, i cannibali di un’era preistorica che rappresenta la fine o l’innesco di una fase storica. Proprio questa età del mondo è il perno su cui ruota il lungometraggio (una sorta di collage tra 6 cortometraggi), dal momento che esso parte e termina con il faccione tatuato di Tom Hanks che si staglia davanti al cielo stellato di una galassia lontana, ascoltando «gli antenati cianciare». Passato, presente e futuro si amalgamano in una specie di élan vital in cui «ogni cattiveria e ogni gentilezza si ripercuotono sul nostro futuro» (ad sensum).
Siamo nel “106 dopo la Caduta” (catastrofe ecologica, bellica o nucleare) e gli uomini sono divisi in tre classi: i “Prescenti” (custodi della scienza e della tecnologia), dei selvaggi allevatori di pecore e i cannibali. Questi ultimi sono, in qualche modo, la metafora vivente del Male di ogni periodo storico, in quanto si cibano dei propri simili: del loro corpo o anche della loro essenza antropologica. I pecorari, invece, parlano una lingua assai povera e sconnessa: altro cliché del genere distopico. L’esistenza è percorsa quindi da una crudele lotta per la sopravvivenza fisica e solo un alieno venuto da lontano, in grado di pensare «altro», può essere quello spiraglio di salvezza che, squarciando il Velo di Maya e uscendo dalla Caverna platonica, scopre la Verità e conduce pertanto alla Libertà.
Ultima annotazione: Cloud Atlas è, nel film, il titolo dell’opera musicale composta dal giovane e abilissimo pianista gay, morto suicida nel film. Essa simboleggia in un certo senso la sinfonia della Bellezza che risuona in eterno, abbracciando e confortando le anime emarginate dalla società, i diversi: ancore di salvezza che sono ancora in grado di abbandonare il peso delle convenzioni e delle regole ingiuste, per far volare in cielo le proprio idee fino a contemplare, libere e leggere, la Luce della Verità. Atlante delle nubi, geografia della galassia umana.