venerdì 21 giugno 2013

Pubblicità, bibite e nomi propri

A parte il fatto che (ne sono quasi certo) moriremo di pubblicità, asfissiati. A parte il fatto che (come testimoniano i commenti dei lettori sui quotidiani) la tv è andata in letargo, dal momento che sono trasmesse principalmente repliche. Ma in questi giorni (sarà per la crisi economica che costringe i creativi pubblicitari a escogitare nuovi espedienti per vendere ancora i prodotti ai clienti; sarà per la crisi sistemica planetaria che sta mostrando le prime crepe su quelle che furono che le colonne portanti del capitalismo, quali i reclame alla televisione) sono comparse una serie di pubblicità interessanti, che dimostrano una volta di più alcune caratteristiche dei fenomeni e delle tendenze che la nostra società sta percorrendo, oltre che rappresentare degli ottimi casi di studio di marketing commerciale al tempo del consumismo. Voglio soffermarmi, in particolare, sugli spot che sponsorizzano alcune bibite aromatizzate che, poiché si è fatta sentire per la prima volta dell’anno la canicola estiva, vengono presentate come delle panacee indispensabili per sopravvivere alla stagione. La cosa che più colpisce l’attento cultore dello zapping, tuttavia, è la precisa decisione dei pubblicitari di propagandare una merce personalizzabile. Tu consumatore, infatti, prima di acquistare la bevanda e gustartela al fine di placare (almeno momentaneamente) la sete, hai la possibilità di creare, avvalendoti anche dei social network che golosamente navighi, il tuo drink, con tanto di nickname e informazioni sulla tua personalità. Le aziende hanno quindi scoperto che, in quest’epoca di smarrimento collettivo o stordimento di massa, in cui le essenze delle cose e delle persone sono più opache che mai, i compratori devono sentire propri i loro prodotti, fino ad assimilarsi ad essi. Hanno capito che bisogna abbattere la quarta parete dello schermo, cosicchè ciascuno si senta protagonista del momento, inserito e ri-conosciuto. Essere e avere. Vita privata commercializzata. Consumatori di senso. Autopubblicità. Baudrillard, Bauman. Alla salute!

venerdì 14 giugno 2013

Survival Hermeneutics



Survival Hermeneutics names, primarily, a skill to interpret actual world to capture its meaning and contradictions and, secondly, a strategy for the safeguard of an authentic human life inside its natural environment. The study, hence, in divided into a pars construens, worded as a phenomenological investigation on the consumer society, and into a pars destruens, where an “ecosophical” thought model and a sustainable way of living are suggested. 

Ermeneutica della sopravvivenza - INDICE

Introduzione

Prologo: L'antropologo marziano

  1. Come il mondo vero finì col diventare finzione

1.1  Un lavoro inutile
1.2  Definizione di ermeneutica e di sopravvivenza
1.3  Il jet-lag metafisico
1.4  Che cos’è metafisica?
1.5  Il mal-essere della Società del benessere


  1. Una perifisica. Ritornare ignoranti

2.1  Che cos’è la perifisica?
2.2  Eco-sofia: agri-coltura e agri-cultura
2.3  Dal “benessere” al ben-essere


Conclusioni: L'ecologia è un umanesimo



Bibliografia

giovedì 13 giugno 2013

Una perifisica


                Sarà necessario ricordare che anche homo proviene da humus e che, di conseguenza, essere umano è saper          essere umile? (F. Duque, “Abitare la terra: Ambiente, Umanismo, Città”)

Dopo aver elaborato la parte negativa della nostra ricerca attraverso una disamina critica del mondo dei consumi di stampo occidentale, passiamo ora alla parte costruttiva della trattazione, in cui cercheremo di riscattare una filosofia alternativa alla visione tecnocratico-capitalistica o metafisico-borghese, che guidi delle pratiche quotidiane atte alla cura di una vita autenticamente umana all’interno del pianeta Terra. Da quanto analizzato in precedenza, per guarire dal jet-leg esistenziale e recuperare un autentico ben-essere, risulta necessario atterrare dal volo pindarico prometeico, capovolgere la metafisica ed elaborare una modalità di pensiero nuovamente a contatto con la natura e con l’intera realtà circostante, vale a dire una PERI-FISICA. Il lemma è composto da due termini di derivazione greca: περὶ (perì), preposizione che significa “presso”, “attorno”, e Φύσις (physis), sostantivo declinato al plurale neutro e traducibile con “natura”, nei due significati che, come abbiamo visto, il termine può assumere. Pertanto, perifisica significa letteralmente “presso la natura” o “attorno alle cose reali”, e ci serve per nominare quella modalità di pensiero antitetica alla metafisica. In altri termini, al fine di porre argine al progressivo scollamento umano dalla terra e alla sua condizione di sradicatezza, fenomeni che lo rendono sostanzialmente un senza tetto mal-vivente, c’è bisogno di una vera eco-sofia, cioè di un sapere dell’abitare imperniato sulla nozione di oikos, che in greco antico significa “casa”, affinché riporti l’uomo schiavo della tecnica e del capitale con i piedi per terra e accanto ai propri simili, per imparare nuovamente a stare al mondo. Innanzitutto, ecosofia non significa fisiocrazia, ossia lasciarsi tiranneggiare passivamente dal potere della natura, rifiutando in modo antiumano il fondamentale contributo della più avveniristica tecnologia. In secondo luogo, essa non implica nemmeno una sorta di economia naturale o di sussistenza, basata sul baratto o su un “comunismo” primitivo. Infatti, lungi dai nostri intenti è l’apparire come moderne Cassandre tecnofobiche, neoluddisti, passatisti, retrivi, reazionari, oscurantisti o nostalgici romantici; in aggiunta, è un atteggiamento infantile e sterile quello di bollare il denaro come sterco del demonio o condannare a priori la proprietà privata. Al contrario, l’ecosofia accoglie, anzitutto, la tecnologia nell’originale accezione greca di techne come “arte di operare”, “saper fare con perizia” e, inoltre, l’eco-nomia vera e propria, concepita alla stregua di “amministrazione dei beni della casa”, cioè gestione e tutela delle risorse naturali del pianeta terra per conto della famiglia umana. Se ci affidiamo, ancora una volta, all’etimologia originaria del termine, ascoltando ciò che hanno da dirci le due parole greche di cui è composta, ovvero οἶκος (“casa”) e νόμος (“legge”), notiamo che eco-nomia vuol dire “regole della casa”, “amministrazione del patrimonio”, “management dei beni di famiglia”. In questo senso, l’eco-nomia è per definizione economia domestica e, come tale, progresso.
            Ora, un modo per rovesciare la metafisica e riabilitare una ecosofia potrebbe essere quello di sostituire l’alfabetizzazione borghese incentrata sull’astrazione con un’opera di alfabetizzazione civica, il cui fulcro è rappresentato e dall’agri-cultura, ossia la "saggezza del campo", e dall’agri-coltura, vale a dire la "lavorazione del campo", rispettivamente il contributo teorico e quello pratico della filosofia contadina, settore primario per definizione legato alla terra. In questo senso, dobbiamo ritornare ignoranti, cioè abbandonare la dotta ignoranza del borghese moderno, ossia il nozionismo metafisico basato sull’astrazione, su cui si regge l’attuale società dei consumi, per apprendere nuovamente la saggezza del uomo umile, il cittadino in qualità di residente della terra. In altri termini, è necessario affidarsi al granaio di saperi elementari che la civiltà contadina ha da sempre posseduto e tramandato ma che ora, sotto il telaio meccanizzato e industriale dell’agribusiness, rischia di scomparire per sempre. A tal proposito, l’endorsement alla tradizionale cultura rurale come nuovo caposcuola per lo sviluppo economico umano giunge dalla studiosa e attivista indiana Vandana Shiva: «Dobbiamo considerare i nostri agricoltori come il nostro capitale sociale, perché le piccole aziende agricole sono quelle che producono di più. [...] Dobbiamo portare rispetto nei confronti della terra, dei nostri agricoltori così come della più antica conoscenza in ambito agricolo[1]». In questo senso, il nostro è un lavoro inutile, giacché non inventiamo nulla; si tratta semplicemente di ri-scoprire quell’ermeneutica della sopravvivenza che naturalmente sgorgava, fino a non molto tempo fa, dal DNA dell’essere umano e, perciò, di ri-proporla al pubblico come indispensabile bagaglio culturale per l’oggi e per il domani.
            Mediante la cura ecosofica del sapere contadino e, in particolare, della sapienza della donna in quanto figura maggiormente emarginata dal mainstream capitalistico e tecnocratico occidentale, sarà forse possibile rinsavire dal morbo metafisico-borghese e passare così, dal finto “benessere” della “civiltà” dei consumi al vero ben-essere della mente e del corpo. Cose, piante, animali e uomini riacquisteranno la loro essenza originaria all’interno del mondo e, pertanto, l’homo sapiens sarà nuovamente in grado di abitare felicemente la terra. Infatti, oltre alle abilità tecniche che un coltivatore deve possedere in modo da ottenere raccolti di qualità, esiste un vero e proprio sapere legato, ad esempio, al rispetto del naturale ciclo delle stagioni, all’influenza degli astri sui lavori da svolgere, alla capacità meteorologica di capire il clima, ecc. Pertanto, sotto il salutare influsso del saper-fare contadino come cura perifisica, la natura tornerà a essere reputata come vita e spontaneità, così come la realtà sarà di nuovo il mondo fisico e materiale, cui l’uomo aggiunge un senso tramite una simbologia culturale. In primo luogo, gli oggetti tornano a essere degli utensili utili da impiegare nel lavoro artigianale quotidiano dotati, in aggiunta, di una significatività che deriva dalla cultura propriamente umana. In secondo luogo, le piante e gli animali ridiventano esseri viventi da preservare e modelli da imitare per apprendere le strategie di adattamento nel proprio ecosistema. In terzo luogo, le persone ritornano membri appartenenti alla medesima specie con cui collaborare per il miglioramento delle condizioni di vita ‒ l’uomo torna umile, da mal-vivente al confino del mondo, ossia in «esilio da quanto sa e odora si terra[2]», rimpatria come bene-stante. La filosofia contadina, in aggiunta, ridà valore alla convivialità, alla ricchezza collettiva e all’importanza delle relazioni carnali tra individui all’interno di una comunità, bilanciando il rapporto tra sociale e social, accrescendo le possibilità di giustizia sociale, solidarietà e libertà. Pur essendo proiettata verso il futuro, essa non dimentica la tradizione, grazie al legame con la memoria. In questo modo, rimette al centro il carattere kairologico dell’esistenza, ossia il Tempo, rispettando il naturale ciclo delle stagioni e l’alternarsi del giorno e della notte, oltre che ricollocare nella giusta prospettiva il tempo libero, quell’otium così importante per la sopravvivenza dell’individuo, una volta svolte le mansioni lavorative atte al vivere. Inoltre, il lavoro, diversamente dai gesti ripetitivi che le tute blu del Consumismo sono obbligati a eseguire nello stabilimento dei Tempi Moderni, riacquista la sua posizione di rilievo come categoria fondamentale dell’umano, anche in virtù di una rivalutazione del lavoro manuale basato sulla qualità e sull’artigianalità delle professioni. In sostanza, la filosofia contadina può insegnarci di nuovo come nutrirsi, come costruire, come convivere, come sopravvivere; come abitare la terra per non soccombere alla catastrofe ambientale. Tuttavia, è bene precisare fin da subito che qui si rigetta il nostalgico quanto falso mito del buon selvaggio spensieratamente immerso in un idilliaco stato di natura bucolico; non s’invoca per nulla un ingenuo revival della georgica età dell’oro rimpiangendo il tempo in cui “si stava meglio, quando si stava peggio”; si esclude con forza il banale “viva la campagna” starnazzato da certo agriturismo. L’esigenza, in questo particolare momento di crisi dell’abitare, è di affidarci nuovamente all’antica sapienza della cultura contadina, senza dimenticare gli errori e gli orrori perpetuati nelle campagne anche dai braccianti agricoli, per passare così dalla borghese sofologia (“scienza del sapere”) alla più umile filosofia (studium, “passione per il sapere”), in modo da conoscere bene il territorio di propria competenza e, di conseguenza, saperlo abitare ragionevolmente.




[1] V. SHIVA, “Mai più cibo spazzatura”, in La Stampa del 22/04/2012
[2] F. DUQUE, Abitare la terra, cit., p. 78

Come il mondo vero finì col diventare finzione

E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista. (A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”)

               
Chiarite tali premesse, vediamo in quale misura l’homo sapiens, caratterizzato da una peculiare forma di inettitudine biologica, non è più in grado di abitare il pianeta Terra. Se ci caliamo nella parte di investigatori del reale, che indagano il loro mondo avvalendosi dello strumento ermeneutico della circospezione, l’impressione è esattamente che l’abitante della odierna società dei consumi, schiavo di un uso scriteriato della tecnica e preda del profitto a tutti i costi, non sia davvero più capace di stare al mondo. Infatti, se assumiamo come campione d’analisi del genere umano il membro della cosiddetta Società del “Benessere”, ossia la parte del mondo contrassegnata da agiatezza economica e ingente sviluppo tecnologico, dal suo comportamento quotidiano nell’ambiente in cui risiede, notiamo che egli, rappresentante di spicco dell’umanità, non sa più come intervenire in maniera equilibrata sull’universo naturale di cui fa parte, per modificarne le leggi in vista dei propri desideri eudemonistici. Nel dettaglio, da parecchio tempo gli esseri umani non sanno più come nutrirsi in maniera razionale, come vestirsi convenientemente per proteggere il loro corpo dal clima, come modificare in modo sensato il proprio ecosistema per costruirvi una dimora sicura. Allo stesso modo, essi hanno perso la corretta attitudine nell’approcciarsi alle cose che popolano il loro mondo. In aggiunta, i Primati della superfamiglia ominoidea, come vedremo, non sono più capaci di vivere con i propri simili e questo fatto, per un animale sociale, rappresenta un deficit strutturale di grande portata. Ma esaminiamo una dopo l’altra tali deficienze sistemiche che contraddistinguerebbero il genere umano di cui anche noi facciamo parte. In primo luogo, l’homo consumens non sa più nutrirsi in maniera ragionevole, cioè tenendo in considerazione la stagionalità, la provenienza, la qualità e il sapore degli alimenti raccolti e mangiati, come dimostrano le paradossali problematiche legate alla malnutrizione, allo spreco del cibo, alla nocività di alcuni ingredienti e all’inquinamento folle delle falde acquifere. Se, come suggeriva Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia, allora siamo prossimi alla catastrofe alimentare e, perciò, antropologica, dal momento che il cibo di cui ci nutriamo, da elemento basilare della comunità, sta diventando per lo più un optional di sostentamento privo di qualsiasi collegamento con il resto della realtà. In secondo luogo, l’uomo “benestante”, fashion victim e schiavo di un confort sconfortante, non sembra più in grado di vestirsi adeguatamente per proteggere il proprio corpo dagli agenti atmosferici. Infatti, invece di abbigliarci a seconda delle condizioni meteorologiche esterne, preferiamo inventare climatizzatori da interno, potenti condizionatori e sofisticati impianti di riscaldamento che, a loro volta, condizionano il clima, innescando un corto circuito pazzesco e incomprensibile. In poche parole, modifichiamo il clima che abbiamo noi stessi alterato! Com’è logico, tutto ciò comporta un dispendio illogico di energia che va a cozzare coi limiti imposti dalle risorse naturali, oltre che con il portafogli nelle nostre tasche. In terzo luogo, l’essere umano contemporaneo non sembra più capace di congegnare efficacemente gli utensili necessari alle sue attività quotidiane per compensare alle proprie mancanze organiche e, inoltre, di edificare in modo misurato una dimora priva di pericoli dove trascorrere la sua esistenza, poiché egli si è ridotto a un mero ingranaggio, inserito nella catena di montaggio di un modo di produzione folle e assurdo. In altre parole, abbiamo perso la giusta misura, il limite, l’arte che ci consentiva di fabbricare solamente quegli oggetti utili, che servono realmente per facilitare le mansioni dell’esistenza. Parimenti, costruiamo tanto per costruire (o, piuttosto, per avere degli introiti), senza criteri di adeguamento in base all’ambiente circostante o regolamentazioni dettate dalla morfologia di un terreno come, per esempio, la vicinanza di una fiume a rischio inondazione piuttosto che di un vulcano in stato di semiattività. Giuridicamente questa mania compulsiva di edificare ovunque senza i giusti permessi si chiama reato di abusivismo e dovrebbe essere punita dalla legge mentre, assai di frequente, si assiste al parto di ecomostri venuti al mondo assieme a colate di cemento. «I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava la voce di Martin Heidegger, perché «solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire[1]». Un tempo bastava il buon senso, e la consapevolezza che una casa era La Casa, eretta per accogliere i vari momenti dell’esistenza di una persona; il posto dove vivere e sopravvivere, far crescere i propri figli, ospitare la famiglia e gli amici. Oggi, oltre alla seconda casa (per chi può permettersela), cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter dormire ed espletare le nostre esigenze sessuali e organiche, un tetto per non essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Infine, l’uomo odierno pare aver dimenticato le regole per convivere pacificamente con i suoi simili, al fine di affrontare in gruppo le difficoltà della vita e realizzare una condizione di benessere collettivo. Difatti, un dato facilmente verificabile è la riduzione della sfera sociale, sopratutto ad opera dei media: vengono meno le occasioni reali di scambio e condivisione, così come le relazioni fisiche tra individui. Per esempio, momenti squisitamente sociali, al di là dei gusti personali di ciascuno, come il cinema, le partite allo stadio, i concerti e il teatro sono spesso sostituite dalla tv o da altri mezzi informatici. Stiamo perciò diventando Avatar di noi stessi, delle monadi solitarie e autarchiche in un universo parallelo enormemente distante dalla realtà; come dice Baudrillard, «ciascuno corre sulla propria orbita, chiuso nella propria bolla, satellizzato[2]». A quanto pare, in mezzo alla folla di un mondo sovrappopolato, spesso l’individuo è più solo che mai: «massa, buco nero dove il sociale si inabissa[3]», per citare ancora il sociologo e filosofo francese.
            A nostro avviso, tale incompetenza pratica nello svolgere in maniera fisiologica le attività basilari che si richiedono a un qualsiasi essere vivente su questo pianeta, ossia evolversi e riprodursi per conservare le caratteristiche precipue della specie cui si appartiene e, di conseguenza, sopravvivere all’interno del proprio ecosistema, è l’esito di un certo paradigma mentale formatosi a partire dall’età moderna e intensificatosi fino ai giorni nostri, che va sotto il nome di metafisica. Il questo studio, il termine, secondo l’originale etimologia greca, indica quella modalità di pensiero che ha progressivamente allontanato l’essere umano dalla realtà naturale, sia nell’accezione di natura in senso stretto, sia nel più ampio significato di realtà globale di derivazione presocratica, vale a dire la Physis come sostrato fondamentale del reale. Metafisica, difatti, è una parola greca composta dalla preposizione μετά (metá) che significa “dopo a”, “oltre”, “al di la”, “al di sopra” e, in aggiunta, dal sostantivo φύσις (physis), declinato al plurale neutro τα Φυσικά (ta Physiká), traducibile con “i fenomeni naturali”, “le cose fisiche”. Pertanto, il vocabolo, nella presente tesi, indica precisamente quel sapere che, mediante un’operazione di astrazione dalla realtà naturale ha condotto l’essere umano al di sopra della fisica, oltre la natura. Il processo di astrazione consiste, invero, in un totale fraintendimento ontologico dell’essenza costitutiva degli enti intra-mondani, ossia oggetti inanimati, vegetali, animali e, infine, l’uomo. In breve, il pensiero metafisico ha provocato i fenomeni di in-oggettivazione, disumanizzazione e disanimalizzazione. In primo luogo, ogni volta che osserviamo un dato oggetto, esso ci appare, prima facie, come un qualsiasi articolo da comprare o vendere. Gli utensili, ad esempio, da originali prodotti della creatività umana, frutto dell’artigianato e, quindi, dell’abilità tecnica e manuale degli individui, non sono più considerati, prima di tutto, strumenti utili alle attività tipicamente umane, bensì mercanzie “belle” o “brutte”, di tendenza o fuori moda, totalmente spersonalizzate, cui attribuire un prezzo, inserire in un listino e mettere in vetrina. Parimenti, l’«utilizzabilità» e la «fidatezza» che Heidegger riconosceva come le essenze delle cose-mezzo[4], sono state sostituite da pubblicità e commerciabilità. In secondo luogo, da quando indossiamo le lenti caleidoscopiche del consumismo, le persone intorno a noi appaiono, innanzitutto,  come dei professionisti retribuiti (di fatto, oggi capita spesso di essere informati del lavoro che svolge un tale, anche se ignoriamo il suo nome) o come dei compratori cui liquidare un determinato prodotto, piuttosto che come dei negozianti da cui poter acquistare (a volte, per esempio, categorizziamo i nostri conoscenti soprattutto come colleghi di lavoro oppure come clienti). In ogni caso, i sottoinsiemi entro cui siamo soliti catalogare gli oggetti e i nostri simili sono diventati, rispettivamente, quello delle merci e quello dei consumatori. Seguendo le penetranti analisi di Baudrillard sulla società dei consumi, possiamo dire che le cose assumono i tratti di simulacra[5], mentre le persone diventano dei veri e propri fantasmi privi di materialità. Anche membri della natura quali le bestie e le piante sono equivocati per mercanzia trafficabile, roba accarezzata dalla Mano Invisibile, da lanciare nel cerchio infuocato del consumismo. Da ultimo, ci accorgiamo che, in fondo, l’intera realtà circostante finisce per essere scambiata per quella che originariamente non è: l’economia è determinata solamente dai valori azionari stabiliti a tavolino dalle borse; le risorse naturali diventano dei beni privati oggetto di compravendita; le parole “crisi” o “crescita” assumono inevitabilmente una colorazione finanziaria[6]; l’esistenza di una persona è ridotta a carriera così come il suo corso di studi serve primariamente per fare curriculum. Anche l’utilizzo indiscriminato della tecnologia conduce l’homo consumens a tale deriva virtuale, tipica dell’impostazione metafisica. Innanzitutto, la simulazione digitale di un hardware è equivocata per la realtà concreta: byte informatici sostituiscono gli elementi chimici e le persone fatte «di carne e di sangue[7]», come ricordava Feuerbach, diventano avatar analogici. In questo modo, si assiste al fenomeno che denominiamo dal sociale al social, ovvero l’allarmante transazione dalla sfera autenticamente sociale, fatta di scambi e relazioni fisiche, all’universo parallelo ricreato dai vari social network, dove navighiamo senza una meta precisa in qualità di utenti o amministratori del servizio. E’ inevitabile che col tempo finiremo imbrigliati nella rete fintanto che non saremo più in grado di distinguere la vita terrena dalla nostra Second Life. Di conseguenza, le persone appaiono come dei profili incorporei, mentre gli oggetti contano solamente per la simbologia creata ex novum che si portano dietro, così come gli animali e le piante fungono soprattutto da cavie per esperimenti: porcellini d’India, bonsai, OGM. Riassumendo, se ci guardiamo attorno in maniera accorta e circospetta per capire il mondo che ci circonda, ci accorgiamo che gli esseri umani, specialmente gli appartenenti alla società industriale avanzata, ovvero gli abitanti dei Paesi altamente sviluppati, si sono dimenticati le istruzioni d’uso per comprendere e abitare il luogo in cui effettivamente vivono e operano, come se avessero smarrito la bussola dell’esistenza e non sapessero più orientarsi nel proprio habitat e tra i propri simili. Per questo, diciamo che l’homo sapiens è, in verità, dotato di una dotta ignoranza, cioè di una logica calcolatrice, di un paradigma gnoseologico incentrato su di un nozionismo metafisico che ha radicalmente alterato la percezione e la conoscenza umana del mondo, oltre che la sua azione trasformatrice sulla natura. In questo senso, l’essere umano non sa più stare coi piedi per terra ma, alla stregua di un apolide del mondo, vaga come senza tetto, totalmente indifferente alla propria abitazione naturale, incurante dell’habitat che lo ospita e assolutamente incapace di amministrare il pianeta su cui vive, non essendo più in grado di adempiere alle proprie mansioni domestiche, alle faccende di casa.  Allo stesso modo, il Primate al vertice della catena dell’essere non sa più in che giorno vive, giacché gli indicatori temporali non sono altro che un susseguirsi di numeri insignificanti, come le perle seriali e qualitativamente indifferenti di un’infinita collana, cifra di un continuum storico che assume i tratti di un tempo mitico eternamente uguale a sé stesso. Parimenti, l’homo consumens ha perso la testa perché vittima di un’opera di smaterializzazione digitale perpetuata dai mass media, e di uno stordimento collettivo di natura capitalistica, che lo rende eternamente frustrato e insoddisfatto, alla disperata ricerca dell’ultimo gadget alla moda, cavia del consumismo, divertito nel Paese dei balocchi e apparentemente appagato, bensì svuotato dei suoi più intrinseci bisogni di felicità. Inoltre, il discendente di Adamo – adamah in antico ebraico significa “fatto di terra”[8] –, è divenuto propriamente un extra-terrestre, un alieno, poiché ha costantemente la testa tra le nuvole di un Iperuranio virtuale e illusorio, in cui le qualità costitutive degli enti che popolano il reale sono integralmente travisate e scambiate per qualcos’altro. Pertanto, chiamiamo virtualità astratta o iperrealtà soprannaturale l’esito cui ci pilota la metafisica, giacché essa ci porta a misconoscere l’essenza del mondo e delle parti di cui esso si compone.
            Detto ciò, è chiaro che gli abitanti della cosiddetta Società del “Benessere” non sono effettivamente più in grado di abitare la terra o di stare al mondo, perché affetti da una endemica sindrome di alienazione interpretativo-comportamentale, che noi chiamiamo jet-lag metafisico, patologia che ha reso l’uomo sostanzialmente un vagabondo senza fissa dimora. Quando e in che modo ci siamo ammalati di jet-lag esistenziale? I sintomi sono iniziati a partire dall’età moderna, epoca in cui, da una parte, l’Illuminismo ha dato l’avvio al razionalismo tecnocratico e, dall’altra, la Rivoluzione Industriale ha innescato il modo di produzione capitalistico. L’epidemia si è poi allargata per colpa di un intensivo processo di alfabetizzazione borghese, incentrata su di un’epistemologia tipicamente meta-fisica, dove l’attributo indica quella particolare tipologia di pensiero scientifico fatto di tecnocrazia e capitalismo all’ennesima potenza, che ha completamente travisato il senso e l’essenza di ogni ente intra-mondano, per fini sperimentali o lucrativi. Infatti, cose, vegetali, fiere e umani sono stati ontologicamente trasformati in oggetti di manipolazione scientifica o in mera mercanzia da compravendita. L’equivoco maggiore dell’erudizione metafisico-borghese è che sappiamo calcolare con assoluta precisione la circonferenza terrestre ma, viceversa, non siamo più in grado di occuparne dignitosamente l’area.
            Ricapitolando, possiamo affermare che la luce della ragione ha finito per abbagliarci e la logica del profitto ne ha approfittato, tant’è che oggi, accecati dal pensiero metafisico, abbiamo la vista offuscata e, di conseguenza, non siamo più capaci di guardare (θεωρέιν) le cose del mondo che ci circondano. Il velo di Maya che non ci permette di vedere direttamente la realtà naturale è l’effetto-nebbia della logica metafisica, alla stregua di una cataratta che ostacola la nostra corretta visione del mondo. Esso corrisponde, grossomodo, alle lenti edulcorate di speciali occhialini 3D, che ci fanno vedere un mondo del quale non si può dire né che sia reale né che non lo sia. Ne consegue che l’eccesso di tecnologia ed economia, nonostante gli evidenti benefici in termini di miglioramento della vita materiale, ha condotto l’umanità in una condizione di malessere psicofisico, celato però sotto forma di “benessere” edonistico e immediato, idolatrato all’insegna di una visione cornucopiana del Paese di Cuccagna, in cui ogni ben di dio è disponibile immediatamente ‒ basta allungare il braccio; dove regna l’abbondanza, ma dove l’obesità e l’opulenza non sono altro che una faccia della medaglia. Il rovescio è, per esempio, la spazzatura che intasa i confini delle metropoli, che inquina i pozzi acquiferi e i cui rilasci tossici avvelenano l’atmosfera. The dark side of the earth, così si può dire, sono le discariche a cielo aperto, le montagne artificiali composte dagli scarti della produzione industriale, i rifiuti di una società incapace di gestire le proprie scorie. La concezione della crescita esponenziale come sviluppo ipertrofico è, sia per il singolo organismo, come ben sappiamo, sia per l’intero corpo sociale, come ancora fingiamo di ignorare, un tumore inarrestabile che ha come unico esito finale l’estinzione. In questo senso, il progresso moderno è di fatto una civilizzazione del suicidio di massa; la nostra è una cultura dell’harakiri, del masochismo più sadico, dell’autolesionismo, dell’auto(d)istruzione. Insomma, il “benessere” del mondo dei consumi altro non è che malessere travestito, assolutamente incurante della persona umana e della sua salute olistica. A tal proposito, un numero sempre più crescente di inchieste e studi scientifici dimostra che «l’industria ha significato sviluppo, ma ha anche prodotto una serie di sostanze chimiche e non (oltre all’uso di metalli e minerali) che, dispersi nell’ambiente ed entrati nella catena alimentare, hanno avuto un forte impatto sulla salute[9]». Ilkka Hansky, professore di ecologia e biologia evoluzionista all’Università di Helsinki, ha coniato un’espressione, ‘malattia da civilizzazione’, per rendere comprensibile che «devastando la natura, alteriamo anche gli equilibri del nostro sistema immunitario. [...] Siamo più ricchi che mai ‒ continua il professore ‒, eppure danneggiamo l’ambiente pur di crescere a tutti i costi. Ma questo progressivo allontanamento dalla natura si ritorce contro di noi, fisicamente e psicologicamente: molte malattie infiammatorie come allergie e asma, sempre più frequenti nelle metropoli, nascono proprio dalla perdita di contatto con la “dimensione verde”[10]».




[1] M. HEIDEGGER, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi e Discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, 1991, p.107
[2] J. BAUDRILLARD, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina Raffaello, 1996, p. 148
[3] J. BAUDRILLARD, All'ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la morte del sociale, tr. it. di M. G. Camici, Cappelli, Bologna 1978, p. 9
[4] Cfr. M. HEIDEGGER, “L’origine dell’opera d’arte” in Sentieri Interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1968
[5] Cfr. J. BAUDRILLARD, La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 2008; J. BAUDRILLARD, Simulacra and Simulation, trad. ing. di S. Faria Glaser, University of Michigan Press, 1994
[6] Di notevole interesse è il fenomeno, soltanto apparentemente linguistico, della modificazione semantica delle parole sotto l’influenza metafisica, ad opera della pedagogia borghese. E’ paradigmatico, ad esempio, notare come il saper-fare tipico della saggezza pratica popolare sia diventato il cortese savoir-faire, così come il più garbato savoir-vivre ha tradotto il saper-stare-al mondo, alquanto più grezzo e, se vogliamo, cinico. Spesso i cosiddetti “francesismi” rappresentano casi rilevanti di alfabetizzazione borghese.
[7] L. FEUERBACH, Principi della filosofia dell’avvenire, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1979, p. 32
[8] F. PASQUERO, a cura di, La Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, 1968, GENESI 5. - 2, p. 34
[9] G. MILANO, “L’inquinamento che ci fa stupidi”, in TUTTOSCIENZE, La Stampa del 21/11/2012, p. IV
[10] F. RIGATELLI, “Perché la civilizzazione ci sta facendo ammalare”, intervista a I. Hanski, in TUTTOSCIENZE, La Stampa del 15/02/2012, p. 29

Ermeneutica della Sopravvivenza

La Città dell’uomo è abitale dagli uomini? F. Duque, “Abitare la terra”

Che ne è dell’abitare nella nostra epoca preoccupante? M. Heidegger, “Costruire Abitare Pensare”

«Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra!» F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”


La mia ricerca nasce, principalmente, dall’osservazione di dati puramente sociologici, che concernono il modo con cui gli esseri umani contemporanei vivono la propria epoca storica, filtrati attraverso le intelaiature teoriche di alcuni degli autori classici della filosofia. Pertanto, sebbene l’input della presente trattazione sia sostanzialmente di natura sociologica, gli strumenti e la tipologia dell’analisi sono filosofici, giacché lo studio si avvale soprattutto delle categorie concettuali dei filosofi, applicate, però, alle problematiche sociali del momento, grazie anche all’ausilio di più recenti contributi scientifici in senso stretto, data la natura dell’argomento. In particolare, questa indagine sorge dalla costernazione di fronte all’inettitudine biologica che sembra aver colpito il cittadino di stampo occidentale, incapace, a ben vedere, di intervenire ragionevolmente nel biotopo in cui è inserito, per creare una nicchia ecologica favorevole alla realizzazione del suo costitutivo bisogno di felicità. In realtà, tale inettitudine biologica, come abbiamo cercato di mostrare nelle seguenti pagine, è il risultato di un certo modo di intendere il sapere e, dunque, di un determinato tipo di pensiero meta-fisico, che noi chiamiamo “dotta ignoranza”. Di conseguenza, l’obiettivo della qui presente dissertazione è, da un lato, decifrare criticamente – fin dove è possibile – il senso e le contraddizioni dell’attuale società dei consumi, per captare il paradigma epistemologico a essa soggiacente; dall’altro lato, riproporre un modello alternativo di pensiero, capace di coordinare un insieme di pratiche quotidiane (faccende domestiche, vedremo il perché) che formino, a loro volta, un’etica dell’abitare. Da ciò deriva la necessità di una Ermeneutica della Sopravvivenza che, da una parte, significa strumento teorico per comprendere il presente o metodo d’indagine atto a interpretare il mondo odierno, individuarne i fenomeni preminenti e anche gli aspetti irrazionali; dall’altra parte, l’espressione indica una sorta di bussola etica che orienti l’uomo nel proprio mondo-ambiente, ovvero una strategia funzionale alla salvaguardia di una vita autenticamente umana all’interno del suo ecosistema – un habitus per il proprio habitat. Il programma dell’argomentazione si divide, perciò, in una pars destruens, che corrisponde alla prima sezione del lavoro, concepita alla stregua di una disamina fenomenologica e ontologica dello status quo e, inoltre, in una pars construens, dove si ricerca un saper-fare originariamente ecosofico che, secondo la nostra umile proposta, sarebbe ancora radicato nel fertile campo della filosofia contadina. In ogni caso, il fine ultimo della trattazione resta il tentativo di riscoprire un’etica eudemonista che abbia a cuore, innanzitutto, la felicità degli uomini e, quindi, anche la tutela dell’ambiente in cui essi vivono, in quanto essa rappresenta, a ben vedere, un atteggiamento tipicamente umanista: prendersi cura della natura è forse la stella polare della cultura antropocentrica, poiché l’ecosofia pone al centro del suo agire il ben-essere dell’umanità. In questo senso, l’ecologia rimane un umanesimo.

Zugunruhe. Gli Abitanti del cielo


Uno dei paradossi a cui la metafisica ci ha condotto è il fatto che, da una parte, ci ha sradicato dalla terra privandoci del vitale contatto con il suolo naturale e, di conseguenza, elevandoci a un Iperuranio virtuale ma, dall’altra, ci ha allo stesso tempo allontanato pure dal cielo, dal momento che non lo degniamo più di uno sguardo o, nel peggiore dei casi, anch’esso diventa una zona franca idonea ai traffici tecnocratici e consumistici. L’uomo contemporaneo, infatti, si è concesso da sé il permesso di soggiorno celeste autoproclamandosi residente del Cielo, per almeno tre ragioni: una fisica, una ermeneutica e una etica. Innanzitutto l’essere umano, animale biologicamente terrestre, in virtù delle innovazioni tecnologiche da lui raggiunte e da sempre mosso dal desiderio di volare, da Icaro in poi è partito alla conquista dell’aria: dapprima attraverso deltaplani, dirigibili, palloni aerostatici, poi mediante aerei, elicotteri, jet, fino alle odierne astronavi supersoniche in grado di perlustrare le regioni galattiche dello spazio. In questo senso, l’uomo si è fatto extra-terrestre, dal punto di vista fisico[1]. Ma abbattere il muro del suono può anche ledere quella zona dell’orecchio interno chiamato labirinto, danneggiando così il sistema vestibolare, responsabile dell’equilibrio generale del corpo. A partire dall’età moderna ‒ e siamo alla causa ermeneutica ‒ l’essere umano è decollato sopra all’aereo Sviluppo Tecnocratico-Consumistico intraprendendo un volo pindarico prometeico che gli ha fatto smarrire le coordinate esistenziali, cosicché oggi risulta incapace di orientarsi tra i propri simili e apolide del mondo. L’Homo consumens, in altre parole, ha perso la bussola che gli permetteva di muoversi saggiamente sul pianeta e appare, per l’appunto, spaesato ed estraniato. Pertanto, l’animale razionale per eccellenza è diventato ultra-terreno: un alieno del mondo e una belva sovra-umana per i suoi vicini di casa. Infine, dal punto di vita etico, l’attributo dell’uomo metafisico, ma pur sempre mortale, è di credersi sopra-naturale: sia nel senso di voler piegare la natura ai suoi scopi tecnocratico-consumistici, calpestandola brutalmente, sia nel senso di reputarsi un essere divino attraverso un processo di esasperata secolarizzazione, la quale ci ha privati della trascendenza, ossia della capacità di oltrepassare lo status quo immaginando mondi alternativi a quello presente. Il ratto della trascendenza ad opera della metafisica comporta, perciò, la fine dell’utopia: svolazziamo come mosche cieche all’interno di una gabbia dorata, andando continuamente a sbattere la testa contro vetrine caleidoscopiche, convinti che questa sia effettivamente la realtà, senza renderci conto che esiste uno spiraglio di salvezza. Per questo motivo, pare davvero distante la nozione di Geviert heideggeriana: «salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali».


            Divini, volatili, astri, nuvole: questi, a ben vedere, sono i legittimi abitanti del Cielo. Tutti e quattro rappresentano gli oggetti alti da cui il pensiero metafisico ci ha allontanati, in aggiunta agli elementi prettamente terrestri. La cecità celeste di cui noi cittadini di stampo occidentale siamo affetti segnala, prima di tutto, una perdita del senso squisitamente estetico, dal momento che “non abbiamo più tempo” per contemplare coloro che dimorano l’empireo nella loro sublime bellezza: quanti romantici escono ancora «a rimirar le stelle», oppure il cuore di chi ancora si riempie immensamente di gioia, come pare accadesse a Kant, a fissare il «cielo stellato sopra di sé»? Proprio le stelle, inoltre, sono state fin dall’antichità i primi strumenti orientativi che coordinavano il passaggio umano sulla terra, specialmente durante la navigazione per mare. Oggi, anche se è innegabile l’apporto di sofisticati dispositivi quali radar e GPS, non conosciamo più le costellazioni e, quindi, non possediamo più una sapienza astrologica. Anzi, se cercate su un qualsiasi motore di ricerca on-line, scoprirete che adesso le stelle si possono persino comprare! Lo stesso discorso vale anche per il sole: in quanto fonte energetica di luce e calore necessaria per la vita sulla terra nonché naturale clessidra in grado di scandire la giornata dell’uomo è stata, col tempo, trascurata e sostituita da chiarore e caldo artificiali. Perciò, anche il confine tra giorno e notte si è fatto meno netto e, spesso, la seconda assume esattamente i connotati del primo, con un dispendio illogico di elettricità e di energia psichica. Il francese Baudrillard descrive la primitività dell’«America siderale», la stella polare intorno a cui gravita l’intera civiltà occidentale, con le seguenti affilate parole:

            «Gli americani sono ossessionati dalla paura che i fuochi si spengano. Nelle case, le luci stanno accese tutta la notte, nei grattacieli, gli uffici vuoti restano illuminati. Sulle freeways, in pieno giorno, le macchine procedono con i fari accesi […]. Senza parlare delle televisione programmata ventiquattr’ore su ventiquattro, e che spesso resta accesa in modo allucinante nelle stanze vuote delle case o nelle camere d’albergo non occupate. Insomma, in America non si accetta di veder insediarsi la notte, o il riposo, né di veder cessare  il processo tecnico. Tutto deve funzionare senza sosta, non si può dare tregua alla potenziale artificiale dell’uomo né consentire l’intermittenza dei cicli naturali (le stagioni, il giorno e la notte, il caldo e il freddo), ma tendere a un continuum funzionale sovente assurdo[2]».

            Se non si osservano più le nuvole, inoltre, non si conoscono nemmeno le condizioni meteorologiche e, quindi, non si ha cognizione della stagione in cui si vive. Gli agenti atmosferici vengono visti come dei nemici da combattere (si pensi alle cannonate sparate per scongiurare una tempesta), perché colpevoli del “brutto tempo”. L’impressione è che l’uomo metafisico cerchi con tutti i suoi mezzi di costruire una mono-stagione caratterizzata da un confort mite e luminoso: un inferno confortevole e climatizzato. Nemmeno i volatili riescono ad attirate la nostra scombussolata attenzione. Se presso gli antichi romani, difatti, le traiettorie degli uccelli erano studiate meticolosamente dagli àuguri per decifrare auspicia divini e, nella civiltà contadina, come attestano numerosi proverbi popolari[3], annunciavano agli uomini il mutare delle stagioni e le condizioni climatiche ottimali in cui svolgere i vari lavori agricoli, attualmente esse divengono, tutt’al più, attrazioni di birdwatching. Ma il legame tra uomo e uccello (dal latino “aves”) ha subito altri notevoli cambiamenti: da importante fonte di cibo (carne e uova), imbottitura per indumenti o materassi (penne e piume), messaggero (piccione viaggiatore), cacciatore (rapaci addestrati con la falconeria), pescatore (cormorani impiegati nell’attività ittica mediorientale), il volatile è diventato, nel migliore dei casi, una cavia per la ricerca biologica e la psicologia comparata o un animale da compagnia (si pensi ai pappagalli o ai canarini). Beninteso, questi inevitabili mutamenti non sono affatto i segali di un apocalittico tramonto dell’aristocrazia umana, dal momento che, ovviamente, sarebbe a dir poco assurdo sostituire le e-mail coi piccioni viaggiatori! Allo stesso modo, pretendere di fermare la ricerca scientifica necessaria per il miglioramento della specie umana (nonostante le denunce del movimento animalista) sarebbe un atto reazionario, per non dire terroristico. Detto ciò, resta importante segnalare il diverso approccio che l’uomo ha assunto nei confronti del mondo della natura, mal-trattata e maneggiata, come un qualsiasi oggetto di esperimento, per scopi puramente tecnocratici e, come articoli regalo, per ragioni consumistiche[4]. Per quanto riguarda i divini, infine, l’esito dell’oblio del cielo si constata dalla mancanza di trascendenza dell’uomo contemporaneo, incapace di sperare in un altrove davvero utopico in cui poter progettare contesti differenti (migliori?) rispetto alla attuale schiavitù tecnocratico-consumistica.



[1] Qui tralasciamo, per la complessità e l’ampiezza degli argomenti, le questioni comunque connesse all’extra-territorialità umana come: l’inquinamento prodotto dai motori degli aerei, il jet-lag indotto agli uccelli migratori, il fenomeno dei ‘Nonluoghi’ individuato dall’antropologo Marc Augé, il problema delle scorie delle navicelle spaziali che intasano la Via Lattea, la riduzione spasmodica dello spazio e del tempo che sconcerta la psiche umana.
[2] J. Baudrillard, America, trad. it. di Laura Guarino, SE, Milano, 2009, p. 60-61
[3] Uno fra i tanti: «Il cuculo deve venire al cinque di aprile, se non viene al sette o agli otto, o è stato preso oppure è morto», da A. Selene, Dizionario dei proverbi, Pan libri, 2004
[4] Degno di nota è il fenomeno dello zugunruhe (dal tedesco Zug, “ migrazione” e Unruhe, “irrequietezza”): «In etologia, lo zugunruhe è un comportamento irrequieto che si presenta negli animali migratori, e specialmente negli uccelli, a cui viene impedito di migrare. Nel caso di animali tenuti in gabbia tale comportamento si manifesta durante la stagione migratoria (http://it.wikipedia.org/wiki/Zugunruhe)».

domenica 9 giugno 2013

Contro la “Giornata Mondiale dell’Ambiente”

Generalizzando e semplificando al minimo, solitamente un’occasione come la Giornata Mondiale dell’Ambiente, indetta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1972 e celebrata ogni 5 giugno, suscita nelle persone due diversi tipi di reazione. Da una parte, ci sono i cosiddetti eco-scettici, cioè quelli che pensano: «Ecco, un’altra roba da comunistacci verdi, pseudo-hippie utopisti, figli dei fiori figli di papà!». Dall’altra parte, invece, emergono con entusiasmo e spirito di partecipazione lodevoli iniziative collegate all’evento, mosse però da un certo moralismo green che fa apparire gli ambientalisti in genere come radical chic, quand’anche, negli esemplari più estremi, addirittura misantropi snob che sembrano avere più a cuore le sorti di una non meglio definita Madre Natura piuttosto che le reali condizioni di vita degli uomini. Com’è facilmente intuibile, pertanto, l’esito cui tale divisione conduce è un’evidente incomunicabilità tra le due fazioni, che sfocia in una totale incomprensibilità, seppur la questione in causa, ovvero la crisi ambientale, sia un problema che tocca chiaramente e indistintamente ogni essere umano. Come fare, dunque, per abbattere i pregiudizi che avvolgono gli occhi e le menti di entrambi gli schieramenti, al fine di imprimere nel DNA degli esseri umani un’imprescindibile consapevolezza eco-logica, che promuova un’autentica e razionale presa di coscienza sulla salute del pianeta che, a sua volta, incoraggi delle pratiche quotidiane alternative a quelle attuali per incrementare il reale ben-essere dell’uomo? In altre parole, in che modo eco-scettici e ambientalisti possono entrare finalmente in relazione per innescare insieme una necessaria svolta ecologica?
            Penso che un buon inizio sia, per esempio, far capire alla gente che la Giornata dell’Ambiente non è affatto una roba da hippie né un momento per predicare (o invocare) l’estinzione della razza umana sul pianeta Terra, bensì un’ottima opportunità per informarsi seriamente sulla questione ambientale e riflettere sui modi migliori con cui porvi rimedio. In particolare, bisogna far capire che fenomeni come il riscaldamento globale, la deforestazione selvaggia e l’inquinamento atmosferico sono problemi che interessano, prima di tutto, la salute psicofisica degli individui, e non (solo) la salvaguardia del panda. Detto altrimenti, il 5 giugno non è la festa del pollice verde o l’anniversario ante litteram dell’apocalisse, ma un giorno per riflettere sui nostri stili di vita e sulle conseguenze che essi hanno sul nostro ben-essere. In questo senso, ritengo che forse sarebbe più opportuno ribattezzare la “Giornata Mondiale dell’Ambiente” in “Giornata Mondiale della Felicità (o del Ben-essere) umana”.
            Come si è visto, ovviamente la mia è una critica formale e non sostanziale, che ha come obiettivo contestare la scelta di attribuire a questa giornata speciale il titolo di “Giornata Mondiale dell’Ambiente”, appunto. In realtà, condivido e sottoscrivo tutto (o quasi) il contenuto di questo 5 giugno, ossia le iniziative, le buone pratiche, le conferenze e gli articoli che a esso si rifanno. Detto altrimenti, mi schiero contro alla dicitura “Giornata Mondiale dell’Ambiente”, ma sono assolutamente a favore della Giornata Mondiale dell’Ambiente, ossia alle conseguenze pratiche che essa mette in moto. La mia disapprovazione riguarda quindi l’immagine che si vuole dare a tale giornata e, perciò, i rischi che da una certa percezione della crisi ambientale possono scaturire.
            Dal mio punto di vista, la “Giornata Mondiale dell’Ambiente” può nuocere alla Giornata Mondiale dell’Ambiente. Infatti, il pericolo è che essa risulti controproducente rispetto allo scopo che si prefissa e al messaggio che intende veicolare, vale a dire (non dimentichiamolo) un comportamento sostenibile allo scopo di migliorare le condizioni di vita degli individui. A parte il pericolo, suscitato pure in altre occasioni quale la Festa delle Donne, di interessarci della questione solamente quel momento particolare per poi fregarsene bellamente durante tutto l’anno, c’è una ragione ancora più profonda, che concerne il fine ultimo dell’ecologia e, in generale, degli atteggiamenti ecosostenibili, ovvero la felicità dell’uomo. Chiediamoci: per quale motivo dovremmo fare la raccolta differenziata, oppure evitare lo spreco di acqua e cibo, o ancora diminuire la nostra impronta ecologica diminuendo le emissioni di CO2 nell’aria e impedendo una deforestazione spregiudicata? Rispettiamo l’ambiente per principio o perché ne va, innanzitutto, della nostra salute e quindi del nostro ben-essere psicofisico? Per un mero ideale morale che ci fa apparire tutti più buoni e politically correct o, invece, per un reale e più che mai attuale (di questi tempi...) bisogno biologico e insieme esistenziale di autentica sopra(v)vivenza? Ognuno di noi dovrebbe farsi interrogativi di questo genere e cercare una risposta soddisfacente e, quanto più possibile, razionale. Io mi sono posto tali domande e propendo senza esitazioni verso le seconde opzioni. Penso che se le persone riuscissero a capire che distruggendo la biodiversità e inquinando gli ecosistemi si ostacola la realizzazione di una società migliore, ovvero giusta, felice, pacifica, salutare, in una sola parola razionale, le azioni green si moltiplicherebbero a vista d’occhio. E che se gli esseri umani comprendessero che è in gioco non solo il ben-essere delle future generazioni ma soprattutto il loro ben-essere immediato, le iniziative organizzate in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente sarebbero forse più efficaci, proprio perché indirizzate verso uno scopo ben definito che, oltretutto, interessa ogni singolo individuo su questa terra (tolti forse i masochisti, i guerrafondai e i malati di mente).

            Per concludere, non scordiamoci, come ci viene rammentato ogni 8 marzo al cospetto di un mazzo di mimose, che ogni giorno è propenso per rendere migliore la nostra esistenza, diminuendo le sofferenze degli esseri viventi sul pianeta Terra per aumentare il livello di felicità. Sono sicuro che anche l’Ambiente è d’accordo con me. Cara Madre Natura ti scrivo... 

Da manicomio - Impressioni post elezioni

Mi svegliai di buon umore, perché mi attendeva una giornata speciale. Ero infatti pronto a rispondere responsabilmente all'appello della Repubblica Italiana, che mi invita a manifestare il mio diritto/dovere in qualità di cittadino maggiorenne, libero, partecipante alla cosa pubblica. Lo Stato mi chiamava alle urne per esprimere il mio voto che avrebbe contribuito ‒ nel limite del porcellum ‒ a eleggere coloro che mi avrebbero rappresentato nelle istituzioni democratiche del Bel Paese. Mi dirigevo baldanzoso verso la scuola elementare dove era stato allestito il seggio elettorale della circoscrizione cui appartengo. «Documento d'identità? Celo. Tessera elettorale? Celo. Idea su chi votare?...Celo». Passai davanti ai tabelloni riportanti le liste di partito, i canditati alla Camera e al Senato delle varie coalizioni, ma non li degnai di uno sguardo perché avevo bene in mente chi avrebbe ottenuto la mia fiducia. «Buongiorno», dissi al carabiniere. «Il cittadino è legittimato a votare», mi assicurò il giovane scrutatore. E finalmente ero nella cabina. Presi la matita e senza esitazioni apposi la crocetta sul simbolo prescelto. Piegai la scheda (non senza difficoltà, lo ammetto) e con orgoglio la infilai nella fessura dell’apposito scatolone. Ancora una volta avevo manifestato il mio senso civico e, come me, milioni di aventi diritto. Il più era fatto; non restava che aspettare.

Le prime indiscrezioni segnalavano un discreto calo di afflusso alle urne, rispetto alle precedenti elezioni politiche. «Vabbé, qualche migliaia di aventi diritto in meno non cambierà così sostanzialmente l'esito del voto». Nel primo pomeriggio le proiezioni parziali non erano molto confortanti. «Vabbé, ma sono parziali!» Ora dopo ora, gli exit poll disegnavano una situazione sempre più drammatica e, tra gli specialisti negli studi televisivi, aleggiava frequentemente la parola "ingovernabilità"... «Vabbé!».

«Non voglio crederci. Ma come è possibile?? Un'altra volta?! Adesso basta, è uno scandalo, sono indignato, questa volta me ne vado sul serio!!!». Ma improvvisamente uno tsunami di dilemmi mi investe: «Io ho votato correttamente? Il simbolo crocettato era effettivamente quello prescelto?? Ma era a destra o a sinistra, in alto o in basso??? La scheda per il Senato era rosa o gialla?!?». Di colpo vengo risucchiato in una vertiginosa inquietudine: «Lo sapevo, ci sono stati i brogli! Cavolo, avevano anche detto di bagnare la punta della matita!». Non riesco a darmi pace; i dubbi mi assaltano. «Magari ho lasciato scheda bianca senza accorgermene. O forse ho fatto scheda nulla involontariamente... E se invece l'inconscio, proprio al momento di crocettare, mi avesse fatto cambiare idea? Oppure un genio maligno, facendosi beffa del carabiniere e all'insaputa degli scrutatori, si è intrufolato nella cabina impossessandosi del mio corpo da cittadino libero e avente diritto! Ma, dopotutto, sono così sicuro di essere andato a votare? E di essermi effettivamente svegliato questa mattina? E se fosse tutto un incubo?». Forse sono pazzo, da ricoverare in manicomio. E, come me, milioni di cittadini italiani aventi diritto.

Al tempo si comanda?

“Al tempo, ai matti e ai padroni non si comanda”, recita un noto proverbio italiano. In generale resta sempre valido il consiglio di non esprimersi tramite frasi fatte o modi di dire come sono, appunto, i proverbi, ma piuttosto di usare parole proprie (come, per esempio, esortano a fare i prof quando raccomandano il metodo di studio più appropriato), solitamente segno di un proprio pensiero anteriore all’esposizione orale e posteriore alla mera memorizzazione di nozioni. Tuttavia, spesso anche i proverbi rappresentano delle interessanti formule linguistiche, espressioni di una cultura antica in cui la saggezza collettiva e l’educazione orale avevano un peso determinante. Allo scopo di preservare tale importante patrimonio culturale è sorta, infatti, la paremiologia, disciplina che si interseca con altri campi di studio quali la sociologia, la filosofia, la storia, la meteorologia, la religione, l’agronomia e la zoologia. In certi casi, però, è opportuno esaminare il rapporto tra le modalità con cui una lingua comunica la propria concezione di verità e la verità che il proprio periodo storico rivela. In particolare, risulta necessario analizzare il modo con cui le parole si modificano nel tempo, andando a plasmare le idee degli uomini e pertanto anche il loro comportamento. Capita infatti che pensiero, linguaggio e azioni si influiscano vicendevolmente e che qualcuno di essi rimanga, per così dire, indietro rispetto alle altre, perché ormai desueto o incompatibile coi modi con cui l’uomo esprime la verità di un dato periodo storico. Il caso che prenderemo in considerazione in questa sede è suggerito dalla massima iniziale. Domandiamoci dunque se il detto sopracitato sia ancora valido oggigiorno, ovvero se esso rifletta tutt’ora una qualche verità de facto.
            In realtà, esiste anche una variazione, diciamo, cacofonica dell’adagio con cui abbiamo aperto, ossia “Al tempo, al culo e ai padroni non si comanda”. Ora, poiché il discorso risulterebbe assai lungo e complicato, lasciando da parte matti, ani, o padroni, ciò su cui ci soffermeremo è il concetto che compare in ambedue le varianti dell’aforisma, cioè il tempo. Innanzitutto, il termine italiano può significare almeno due cose: il tempo come scorrere degli eventi, quindi storia; il tempo atmosferico, ossia il clima. A noi qui interessa la seconda accezione che il lemma può assumere. Effettivamente, fino a un certo momento della storia il clima era davvero qualcosa che non poteva essere comandato dagli uomini, alla stregua di una entità incontrollabile, misteriosa, quasi magica e imperscrutabile, come gli dei, che soggiogavano gli esseri umani e a cui quest’ultimi dovevano avvicinarsi in maniera cauta e prudente, data l’alta natura dalla questione. Non a caso, le prime divinità venerate o avversate dalle antiche civiltà erano esattamente gli agenti atmosferici quali il sole, i fulmini e le nuvole, forieri dei fenomeni meteorologici che, nel bene e nel male, decidevano le vite di innumerevoli individui: siccità, tempeste, inondazioni, uragani, ecc. Per questi motivi, la meteorologia fu una della più remote arti coi l’uomo si cimentò, attraverso l’invenzione di strumenti adatti, per ragioni evidentemente vitali come la coltivazione e l’irrigazione dei campi o la navigazione. Di conseguenza, il motto a cui stiamo facendo riferimento, aveva una sua effettiva validità in passato, dal momento che era vero che gli uomini potevano poco o nulla, con le loro misere tecnologie, al cospetto di forze naturali così potenti e lontane nello spazio. Cionondimeno, l’uomo ha da sempre cercato di interpretare i segni della natura per capire il tempo atmosferico, in genere attraverso un metodo d’indagine induttivo basato sull’associazione di casi simili ricorrenti nelle stesse condizioni atmosferiche, ad esempio osservando, alla stregua di attenti etnologi ante litteram, il comportamento degli animali prima di determinati fenomeni climatici. In questo senso, possiamo affermare che l’uomo è sempre stato, seppur in maniera vaga e imprecisa, un meteorologo, come testimonia il peculiare desiderio umano di leggere il grande libro della natura al fine di carpirne i segreti. D’altro canto, ogni essere vivente su questo pianeta possiede delle capacità più o meno efficaci che gli consentono di effettuare delle previsioni approssimative sul clima. E l’uomo non ne è certamente da meno, in quanto animale sulla Terra.
            Successivamente, le idee degli uomini si sono evolute (per certi versi), così come le loro applicazioni tecnologiche: la natura diviene sempre meno potente e incontrollabile grazie alla cultura. Le nuvole si fecero in qualche modo meno lontane e si configurò, perciò, un’epoca in cui fu possibile prevedere il clima, ossia annunciare in anticipo, in virtù di calcoli e sofisticate apparecchiature, l’esito indicativo delle condizioni climatiche che si sarebbero manifestate nel breve futuro. Questa abilità umana, col passare del tempo e con l’affinarsi delle tecniche di calcolo, si è fatta sempre più precisa, rendendo l’uomo l’unico essere vivente in grado di avere la consapevolezza razionale delle condizione climatiche dell’avvenire. Arrivò poi un’era in cui l’homo sapiens divenne addirittura capace di interferire col clima, vale dire modificare volontariamente il naturale corso dei fenomeni atmosferici, per renderlo favorevole alle proprie attività economiche. Stiamo parlando, ad esempio, delle cannonate sparate in cielo per scongiurare una tempesta in arrivo. Tuttavia, capitò pure che le attività dell’uomo interferissero al di là delle sue intenzioni sul clima: effetto serra, surriscaldamento globale del pianeta, aumento delle temperature, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, eventi meteorologici estremi, sono gli esiti che un certo modo di fare spiccatamente umano produsse, i quali, passati inosservati per troppo tempo, sono oggi studiati attentamente da scienziati e portati alla ribalta dai cosiddetti ambientalisti o ecologisti, che dir si voglia.
            Come abbiamo visto, le idee (incubatrici di tecnica) e le azioni delle persone sono cambiate nei secoli, apportando notevoli conseguenze al problema di cui si stiamo occupando, ossia il concetto di tempo atmosferico e la sua relazione con la rappresentazione che l’uomo ha di esso. Tuttavia, ci accorgiamo adesso che il linguaggio non ha fedelmente accompagnato pensiero e azione in questa trasformazione, se ancora oggi è lecito asserire con convinzione una sentenza come “al tempo non si comanda”. Magari uno non pensa sempre a tutto quello che dice e parla senza chiedersi seriamente che significato abbiano le sue parole, dando aria alla sua bocca. Ma più sovente ancora, succede che le persone possiedano un linguaggio arretrato rispetto alle mutate condizioni storiche, come dimostra il caso appena esaminato. Perché è senz’altro vero che al tempo non si comanda mai totalmente, come ci insegnano i sismologhi o i vulcanologi. Ma è anche vero che non possiamo più lamentarci in continuazione del “brutto” tempo o piangerci addosso quando “capitano” eventi meteorologici paranormali, maledicendo la sorte o qualche celata divinità celeste, perché anche noi siamo in parte responsabili. Allo stesso modo, non dovremmo più subire in maniera passiva un tornado o un nubifragio, come se fosse una piaga mandata dall’alto e a cui noi nulla possiamo, bensì comprendere che, innanzitutto, ciò è anche colpa nostra e delle nostre abitudini quotidiane e che, in secondo luogo (a discapito di quello che insinuano i proverbi e i luoghi comuni), abbiamo finito per comandare eccessivamente al tempo, al punto che esso ora si sta ribellando.    


P.S. Questa riflessione è nata in seguito a un colloquio con mia nonna, la quale commentava con dolore misto a rassegnazione i traumi materiali e mentali che degli alluvionati hanno dovuto subire a causa di un nubifragio in alcune regioni del centro Europa, appresi dalle prime pagine di un quotidiano nazionale. Dopo alla commossa lettura delle tragiche notizie, il suo commento a caldo è stato: “Povera gente... Tanto al tempo non si comanda”. Da qui ho iniziato a ragionare sulla percezione che molta gente, in buona fede e inconsciamente, ha di alcuni fatti della realtà e, a maggior ragione, sulle responsabilità che il normale sistema di informazioni ha su tale percezione. 

martedì 4 giugno 2013

Ho trovato risposte

Ho trovato risposte nel gelo del campo,
tra lo scricchiolare delle fragili radici.
Quando i corpi si coprono dal freddo
ed emerge l’erotismo dei muscoli, dei nervi, delle ossa.
Recalcitrano energia
dopo aver assimilato calorie dal nutrimento di radici fragili,
ancorate ad un terreno ibernato, ma per nulla morto, anzi in attesa
quando la mancanza è frontiera del raccolto;

quando il bianco è il riflesso potenziale di tutti i colori. 

Apocalesse

La fine del mondo arriverà
In un giorno assolato d’estate,
Sotto al cielo sgombro di nubi,
Senza fare nemmeno rumore,
Come un pesce che grida il dolore
Di una vita pura ed asettica.

Istanti lentissimi,
Tremolii immortalati
A gonfiare l’aria di vuoto.
Il nulla che annulla e nullifica.
Dal nulla
Il sonno atroce ci culla,
Spensierato nei dolci martiri,
sacrificati al vortice cosmico

di tempi mortali. 

CORSIVI MIEI (DAL CANTO MIO)


Corsivi miei,
a issar bandiera, tra le righe di una terra straniera.
Corsivi miei,
fiera andatura, tra i puntini in armatura nera.

Dal canto mio lo so
Non sono un artista
Ma un fuoripista
Di rime e rondò…
Dal canto mio lo so
Non sono un poeta
Ma carta avanzata ancora ne ho…

Corsivi miei,
corsari audaci, cari amici mai piegati agli avversari.

Dal canto mio lo so
Non sono un cantante
Ma un musicante
Di note e però…
Dal canto mio lo so
Non sono un poeta
Ma carta avanzata
Ancora ne ho…
Dal canto mio lo so
Non sono un poeta
Ma carta sprecata ancora ne ho…

È l'inquietudine!

È l’inquietudine
che non ti da pace,
che ti svuota dentro;
ti rosicchia l’anima come un tarlo,
rubandoti il sorriso.
Ti rode l’esofago
Fin nelle viscere più profonde dello spirito,
dentro allo stomaco
su fino alla gola,
dove una morsa stretta impedisce la parola.

È l’inquietudine
che tiene accesa la fiammella della Verità.
Ti rende insoddisfatto del presente
costringendoti alla continua ricerca
di un futuro migliore.
E’ il sentimento che guida la critica

alimentando i semi dell’utopia. 

R e L (Estate)

Grilli che gracchiano, arroccati e ancora fragili.
Arsure della terra bruciata dal calore.
Sudore nella barba di aspri agricoltori.
Aratri pei raccolti, frugali mandriani
Sul mare reti georgiche di rughe, pescatori!
Però scioglie un acqua placida,
fluttuante, liscia, limpida,
Ruscelli ancora sgorgano su limai e vettovaglie.
Lieto il mio fluire lambisce il plenilunio.
Lievi allori d’aglio parole deglutiscono...

Neve (La benedizione)

Ogni cosa è battezzata.

L’aria si pulisce gli occhi.
Si genuflettono i rami e si fanno le ossa.
Le foglie tremano prive di lamento, in attesa della reincarnazione.
Mi osservano i tronchi, contemplando la cerimonia e tonificando gli arti.
La terra si purifica
e ripulisce il sangue che le corre in grembo e nutre le radici fameliche.
Nel sottosuolo le bestie addormentate si godono il mistero, sognando la dolce primavera.

Le fiere in superficie mettono pelo e mandano un passerotto, loro messaggero, in avanscoperta:      
«Niente nuove» mugghia l’ugola di un cane.

La campagna è saggia e rimbocca i suoi semi.
I giochi dei bambini sono invocazioni di bene

e i loro giubili augurano fortuna.   

Zigzag

Due copertoni neri, tenuti assieme da una ventina di raggi in ferro, pesanti come il piombo, scorrono a zigzag.
Calpestare la cresta verde a metà sterrato non conviene.
Il vento arrugginito dal ferro corrode il cielo di piombo, dove i raggi del sole sono mantenuti e coperti da nubi d’insieme.
Tempesta d’erba in arrivo. Ci si ripara ingobbendosi al manubrio.
Anche oggi l’arrivo non è stato segnato e
ad aspettarci resta solo la nebbia.
Quattro sterili anatre asmatiche tra le parentesi tonde dell’acqua.

Alcol Piombo Silenzio.

Utopia

Il sogno ad occhi aperti
ci guida,
orientando il nostro agire;
come la stella polare

apre l’orizzonte. 

Viticoltori

Schiene ricurve
a riflettere i raggi d’agosto;
come rami sudati
col capo chinato;
girasoli bruciati, dalla lustra corteccia:
piccole gobbe

sulla gobba della collina. 

Meteoriti

Capita ogni tanto
(almeno una volta nella vita)
che arrivi un asteroide
ad attivare la fissione
delle tue pillole di potenzialità,
così da dischiudere
un luminoso fascio
di realizzazioni,
che si espande lungo
la tua esistenza,
irradiando ciò che

ti circonda. 

Solidarietà

Le capre se stanno sparse
a brucare le sterpaglie;
ognuna tra i suoi vaghi pensieri.

Qua e là conigli:
occhi vigili.

La poiana già sorvola le sue prede.

Un belato in codice
e la ritirata in tana.

La poiana inverte la rotta.

Passano i giorni -
sempre più sterpaglia.
I conigli pregano e resistono;
la poiana studia.

Gli occhi attenti non bastano
quando i belati svaniscono.


La poiana si sfama. 

Gavrilo Princip

Nato nella storia, fottutamente noto.
Scheggia della Nato, eppur si deve andar…
Cavalca ancora l’onda, frontiera degli eroi.
Studiava anatomia del sire imperator…
Firmava con la polvere, pseudonimo principe.

La morte dell'eremita

L’agonia del mio cuore:
tuoni isolati sulla terra buia,
tamburi nella selva oscura,
rintocchi di un campanile dismesso.

Si allungano lentamente i giorni
mentre i miei giorni s’accorciano.

Spirare a mezzogiorno

quando la natura tutta sta per risvegliarsi. 

Mani dietro la schiena

Mani dietro la schiena
passeggia - passa il paesaggio -
sotto al rado fogliame
alla ricerca di un raggio appannato.
La vista rauca
invoca un ultimo, baluardo, desiderio.

Mani dietro la schiena
pagaia
il suo cucchiaino olivastro
dentro al suo sporco caffè.
Scruta oltre al vetro
il sentiero dismesso.

Sorride
al suo sordo passaggio
il vento, compagno instancabile
di pomeriggi aspri.

Quale minuto, invisibile
segreto

nascondono le aride nocche?

Futuro

Bisognerebbe tornare
a impugnare la terra –
gustarne la polpa, mordendo i suoi seni;
odorarne l’aroma, fiutando nel vento;
udirne il battito, ascoltando rumori;
osservarne la vita, contemplando i colori.

Bisognerebbe tornare
a cantare alle stelle –
lucciole nella lucida notte,
e della luna ascoltare la voce,
dalla faccia scalfita che par cotta e tace.

Bisognerebbe tornare
ad usare proverbi –
leggere tra le rughe dei vecchi,
guardando alle fiere, essendo noi uomini,
discorrere coi santi, conoscerne i nomi.

Bisognerebbe tornare
a dialogare con le bestie –
son fatti di versi i nostri poemi.
Spargiamo sementi tra i solchi del cuore;
ariamo ferite e ruminiamo parole.

Bisognerebbe tornare
a colloquiare con le piante,
per crescere forti e radicar tra la gente.
Stillanti di linfa
respiriamo abbracciati alla vita,
finché la corteccia comanda alle dita.

Bisognerebbe tornare
a parlare da soli:
per rinsavire un pochino, conoscerci appena.


Bisognerebbe tornare
a parlare del tempo –
di come vanno le cose
per propria stagione.
Toccare il silenzio del nubile sole,

seguirne l’anello, sentirne il calore.