e vi solleverò il mondo!
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domenica 30 giugno 2013
venerdì 21 giugno 2013
Pubblicità, bibite e nomi propri
A parte il fatto
che (ne sono quasi certo) moriremo di pubblicità, asfissiati. A parte il fatto
che (come testimoniano i commenti dei lettori sui quotidiani) la tv è andata in
letargo, dal momento che sono trasmesse principalmente repliche. Ma in questi giorni
(sarà per la crisi economica che costringe i creativi pubblicitari a escogitare
nuovi espedienti per vendere ancora i prodotti ai clienti; sarà per la crisi
sistemica planetaria che sta mostrando le prime crepe su quelle che furono che
le colonne portanti del capitalismo, quali i reclame alla televisione) sono
comparse una serie di pubblicità interessanti, che dimostrano una volta di più
alcune caratteristiche dei fenomeni e delle tendenze che la nostra società sta
percorrendo, oltre che rappresentare degli ottimi casi di studio di marketing
commerciale al tempo del consumismo. Voglio soffermarmi, in particolare, sugli
spot che sponsorizzano alcune bibite aromatizzate che, poiché si è fatta
sentire per la prima volta dell’anno la canicola estiva, vengono presentate
come delle panacee indispensabili per sopravvivere alla stagione. La cosa che
più colpisce l’attento cultore dello zapping, tuttavia, è la precisa decisione
dei pubblicitari di propagandare una merce personalizzabile. Tu consumatore,
infatti, prima di acquistare la bevanda e gustartela al fine di placare (almeno
momentaneamente) la sete, hai la possibilità di creare, avvalendoti anche dei
social network che golosamente navighi, il tuo drink, con tanto di
nickname e informazioni sulla tua personalità. Le aziende hanno quindi scoperto
che, in quest’epoca di smarrimento collettivo o stordimento di massa, in cui le
essenze delle cose e delle persone sono più opache che mai, i compratori devono
sentire propri i loro prodotti, fino ad assimilarsi ad essi. Hanno capito che
bisogna abbattere la quarta parete dello schermo, cosicchè ciascuno si senta
protagonista del momento, inserito e ri-conosciuto. Essere e avere. Vita
privata commercializzata. Consumatori di senso. Autopubblicità. Baudrillard,
Bauman. Alla salute!
venerdì 14 giugno 2013
Survival Hermeneutics
Survival Hermeneutics names,
primarily, a skill to interpret actual world to capture its meaning and
contradictions and, secondly, a strategy for the safeguard of an authentic
human life inside its natural environment. The study, hence, in divided into a pars
construens, worded as a phenomenological investigation on the consumer
society, and into a pars destruens, where an “ecosophical” thought model
and a sustainable way of living are suggested.
Ermeneutica della sopravvivenza - INDICE
Introduzione
Prologo: L'antropologo marziano
- Come il
mondo vero finì col diventare finzione
1.1 Un lavoro inutile
1.2 Definizione di ermeneutica e di sopravvivenza
1.3 Il jet-lag metafisico
1.4 Che cos’è metafisica?
1.5 Il mal-essere della Società del benessere
- Una
perifisica. Ritornare ignoranti
2.1 Che cos’è la perifisica?
2.2 Eco-sofia: agri-coltura e agri-cultura
2.3 Dal “benessere” al ben-essere
Conclusioni: L'ecologia è un umanesimo
Bibliografia
giovedì 13 giugno 2013
Una perifisica
Sarà necessario ricordare
che anche homo proviene da humus e che, di conseguenza, essere umano è saper essere umile? (F. Duque, “Abitare la terra: Ambiente,
Umanismo, Città”)
Dopo aver
elaborato la parte negativa della nostra ricerca attraverso una disamina
critica del mondo dei consumi di stampo occidentale, passiamo ora alla parte
costruttiva della trattazione, in cui cercheremo di riscattare una filosofia
alternativa alla visione tecnocratico-capitalistica o metafisico-borghese, che
guidi delle pratiche quotidiane atte alla cura di una vita autenticamente umana
all’interno del pianeta Terra. Da quanto analizzato in precedenza, per guarire
dal jet-leg esistenziale e recuperare un autentico ben-essere, risulta
necessario atterrare dal volo pindarico prometeico, capovolgere la metafisica
ed elaborare una modalità di pensiero nuovamente a contatto con la natura e con
l’intera realtà circostante, vale a dire una PERI-FISICA. Il lemma è composto
da due termini di derivazione greca: περὶ (perì),
preposizione che significa “presso”, “attorno”, e Φύσις (physis), sostantivo declinato al plurale neutro e traducibile con
“natura”, nei due significati che, come abbiamo visto, il termine può assumere.
Pertanto, perifisica significa letteralmente “presso la natura” o “attorno alle
cose reali”, e ci serve per nominare quella modalità di pensiero antitetica
alla metafisica. In altri termini, al fine di porre argine al progressivo scollamento
umano dalla terra e alla sua condizione di sradicatezza, fenomeni che lo
rendono sostanzialmente un senza tetto mal-vivente, c’è bisogno di una vera eco-sofia,
cioè di un sapere dell’abitare imperniato sulla nozione di oikos, che in
greco antico significa “casa”, affinché riporti l’uomo schiavo della
tecnica e del capitale con i piedi per terra e accanto ai propri simili, per
imparare nuovamente a stare al mondo. Innanzitutto, ecosofia non significa
fisiocrazia, ossia lasciarsi tiranneggiare passivamente dal potere della
natura, rifiutando in modo antiumano il fondamentale contributo della più
avveniristica tecnologia. In secondo luogo, essa non implica nemmeno una sorta
di economia naturale o di sussistenza, basata sul baratto o su un “comunismo”
primitivo. Infatti, lungi dai nostri intenti è l’apparire come moderne
Cassandre tecnofobiche, neoluddisti, passatisti, retrivi, reazionari,
oscurantisti o nostalgici romantici; in aggiunta, è un atteggiamento infantile
e sterile quello di bollare il denaro come sterco del demonio o condannare a
priori la proprietà privata. Al contrario, l’ecosofia accoglie, anzitutto, la
tecnologia nell’originale accezione greca di techne come “arte di
operare”, “saper fare con perizia” e, inoltre, l’eco-nomia vera e propria,
concepita alla stregua di “amministrazione dei beni della casa”, cioè gestione
e tutela delle risorse naturali del pianeta terra per conto della famiglia
umana. Se ci affidiamo, ancora una volta, all’etimologia originaria del
termine, ascoltando ciò che hanno da dirci le due parole greche di cui è
composta, ovvero οἶκος (“casa”) e νόμος (“legge”), notiamo che eco-nomia vuol
dire “regole della casa”, “amministrazione del patrimonio”, “management dei
beni di famiglia”. In questo senso, l’eco-nomia è per definizione economia domestica e, come tale,
progresso.
Ora, un modo per rovesciare la
metafisica e riabilitare una ecosofia potrebbe essere quello di sostituire
l’alfabetizzazione borghese incentrata sull’astrazione con un’opera di alfabetizzazione
civica, il cui fulcro è rappresentato e dall’agri-cultura, ossia la "saggezza
del campo", e dall’agri-coltura, vale a dire la "lavorazione del campo",
rispettivamente il contributo teorico e quello pratico della filosofia
contadina, settore primario per definizione legato alla terra. In questo senso,
dobbiamo ritornare
ignoranti, cioè abbandonare la dotta ignoranza del borghese moderno, ossia
il nozionismo metafisico basato sull’astrazione, su cui si regge l’attuale
società dei consumi, per apprendere nuovamente la saggezza del uomo umile, il
cittadino in qualità di residente della terra. In altri termini, è necessario
affidarsi al granaio di saperi elementari che la civiltà contadina ha da sempre
posseduto e tramandato ma che ora, sotto il telaio meccanizzato e industriale
dell’agribusiness, rischia di scomparire per sempre. A tal proposito, l’endorsement
alla tradizionale cultura rurale come nuovo caposcuola per lo sviluppo
economico umano giunge dalla studiosa e attivista indiana Vandana Shiva: «Dobbiamo
considerare i nostri agricoltori come il nostro capitale sociale, perché le
piccole aziende agricole sono quelle che producono di più. [...] Dobbiamo
portare rispetto nei confronti della terra, dei nostri agricoltori così come
della più antica conoscenza in ambito agricolo[1]».
In questo senso, il nostro
è un lavoro inutile, giacché non inventiamo nulla; si tratta
semplicemente di ri-scoprire quell’ermeneutica della sopravvivenza che
naturalmente sgorgava, fino a non molto tempo fa, dal DNA dell’essere umano e,
perciò, di ri-proporla al pubblico come indispensabile bagaglio culturale per
l’oggi e per il domani.
Mediante la cura ecosofica del
sapere contadino e, in particolare, della sapienza della donna in quanto figura
maggiormente emarginata dal mainstream capitalistico e tecnocratico
occidentale, sarà forse possibile rinsavire dal morbo metafisico-borghese e
passare così, dal finto “benessere” della “civiltà” dei consumi al vero ben-essere
della mente e del corpo. Cose, piante, animali e uomini riacquisteranno la loro
essenza originaria all’interno del mondo e, pertanto, l’homo sapiens sarà
nuovamente in grado di abitare felicemente la terra. Infatti, oltre alle
abilità tecniche che un coltivatore deve possedere in modo da ottenere raccolti
di qualità, esiste un vero e proprio sapere legato, ad esempio, al rispetto del
naturale ciclo delle stagioni, all’influenza degli astri sui lavori da
svolgere, alla capacità meteorologica di capire il clima, ecc. Pertanto, sotto
il salutare influsso del saper-fare contadino come cura perifisica, la natura
tornerà a essere reputata come vita e spontaneità, così come la realtà sarà di
nuovo il mondo fisico e materiale, cui l’uomo aggiunge un senso tramite una
simbologia culturale. In primo luogo, gli oggetti tornano a essere degli
utensili utili da impiegare nel lavoro artigianale quotidiano dotati, in
aggiunta, di una significatività che deriva dalla cultura propriamente umana.
In secondo luogo, le piante e gli animali ridiventano esseri viventi da
preservare e modelli da imitare per apprendere le strategie di adattamento nel
proprio ecosistema. In terzo luogo, le persone ritornano membri appartenenti
alla medesima specie con cui collaborare per il miglioramento delle condizioni
di vita ‒ l’uomo torna umile, da mal-vivente al confino del mondo, ossia in «esilio
da quanto sa e odora si terra[2]»,
rimpatria come bene-stante. La filosofia contadina, in aggiunta, ridà valore
alla convivialità, alla ricchezza collettiva e all’importanza delle relazioni
carnali tra individui all’interno di una comunità, bilanciando il rapporto tra
sociale e social, accrescendo le possibilità di giustizia sociale, solidarietà e
libertà. Pur essendo proiettata verso il futuro, essa non dimentica la
tradizione, grazie al legame con la memoria. In questo modo, rimette al centro
il carattere kairologico dell’esistenza, ossia il Tempo, rispettando il
naturale ciclo delle stagioni e l’alternarsi del giorno e della notte, oltre
che ricollocare nella giusta prospettiva il tempo libero, quell’otium così
importante per la sopravvivenza dell’individuo, una volta svolte le mansioni
lavorative atte al vivere. Inoltre, il lavoro, diversamente dai gesti
ripetitivi che le tute blu del Consumismo sono obbligati a eseguire nello
stabilimento dei Tempi Moderni, riacquista la sua posizione di rilievo come
categoria fondamentale dell’umano, anche in virtù di una rivalutazione del
lavoro manuale basato sulla qualità e sull’artigianalità delle professioni. In
sostanza, la filosofia contadina può insegnarci di nuovo come nutrirsi, come
costruire, come convivere, come sopravvivere; come abitare la terra per non
soccombere alla catastrofe ambientale. Tuttavia, è bene precisare fin da subito che qui si rigetta il nostalgico
quanto falso mito del buon selvaggio spensieratamente immerso in un idilliaco
stato di natura bucolico; non s’invoca per nulla un ingenuo revival della
georgica età dell’oro rimpiangendo il tempo in cui “si stava meglio, quando si
stava peggio”; si esclude con forza il banale “viva la campagna” starnazzato da
certo agriturismo. L’esigenza, in questo particolare momento di crisi
dell’abitare, è di affidarci nuovamente all’antica sapienza della cultura
contadina, senza dimenticare gli errori e gli orrori perpetuati nelle campagne
anche dai braccianti agricoli, per passare così dalla borghese sofologia
(“scienza del sapere”) alla più umile filosofia (studium, “passione per
il sapere”), in modo da conoscere bene il territorio di propria competenza e,
di conseguenza, saperlo abitare ragionevolmente.
Come il mondo vero finì col diventare finzione
E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro
vedere un mondo del quale non può dirsi
né che esista né che non esista. (A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione”)
Chiarite tali
premesse, vediamo in quale misura l’homo sapiens, caratterizzato da una
peculiare forma di inettitudine biologica, non è più in grado di abitare
il pianeta Terra. Se ci caliamo nella parte di investigatori del reale, che
indagano il loro mondo avvalendosi dello strumento ermeneutico della
circospezione, l’impressione è esattamente che l’abitante della odierna società
dei consumi, schiavo di un uso scriteriato della tecnica e preda del profitto a
tutti i costi, non sia davvero più capace di stare al mondo. Infatti, se assumiamo
come campione d’analisi del genere umano il membro della cosiddetta Società del
“Benessere”, ossia la parte del mondo contrassegnata da agiatezza economica e ingente
sviluppo tecnologico, dal suo comportamento quotidiano nell’ambiente in cui
risiede, notiamo che egli, rappresentante di spicco dell’umanità, non sa più
come intervenire in maniera equilibrata sull’universo naturale di cui fa parte,
per modificarne le leggi in vista dei propri desideri eudemonistici. Nel
dettaglio, da parecchio tempo gli esseri umani non sanno più come nutrirsi in
maniera razionale, come vestirsi convenientemente per proteggere il loro corpo
dal clima, come modificare in modo sensato il proprio ecosistema per costruirvi
una dimora sicura. Allo stesso modo, essi hanno perso la corretta attitudine
nell’approcciarsi alle cose che popolano il loro mondo. In aggiunta, i Primati
della superfamiglia ominoidea, come vedremo, non sono più capaci di vivere con
i propri simili e questo fatto, per un animale sociale, rappresenta un deficit
strutturale di grande portata. Ma esaminiamo una dopo l’altra tali deficienze
sistemiche che contraddistinguerebbero il genere umano di cui anche noi
facciamo parte. In primo luogo, l’homo consumens non sa più nutrirsi in
maniera ragionevole, cioè tenendo in considerazione la stagionalità, la
provenienza, la qualità e il sapore degli alimenti raccolti e mangiati, come
dimostrano le paradossali problematiche legate alla malnutrizione, allo spreco
del cibo, alla nocività di alcuni ingredienti e all’inquinamento folle delle
falde acquifere. Se, come suggeriva Feuerbach, l’uomo è ciò che mangia, allora
siamo prossimi alla catastrofe alimentare e, perciò, antropologica, dal momento
che il cibo di cui ci nutriamo, da elemento basilare della comunità, sta
diventando per lo più un optional
di sostentamento privo di qualsiasi collegamento con il resto della realtà. In
secondo luogo, l’uomo “benestante”, fashion victim e schiavo di un
confort sconfortante, non sembra più in grado di vestirsi adeguatamente per
proteggere il proprio corpo dagli agenti atmosferici. Infatti, invece di
abbigliarci a seconda delle condizioni meteorologiche esterne, preferiamo
inventare climatizzatori da interno, potenti condizionatori e sofisticati
impianti di riscaldamento che, a loro volta, condizionano il clima, innescando
un corto circuito pazzesco e incomprensibile. In poche parole, modifichiamo il
clima che abbiamo noi stessi alterato! Com’è logico, tutto ciò comporta un
dispendio illogico di energia che va a cozzare coi limiti imposti dalle risorse
naturali, oltre che con il portafogli nelle nostre tasche. In terzo luogo,
l’essere umano contemporaneo non sembra più capace di congegnare efficacemente
gli utensili necessari alle sue attività quotidiane per compensare alle proprie
mancanze organiche e, inoltre, di edificare in modo misurato una dimora priva
di pericoli dove trascorrere la sua esistenza, poiché egli si è ridotto a un mero
ingranaggio, inserito nella catena di montaggio di un modo di produzione folle
e assurdo. In altre parole, abbiamo perso la giusta misura, il limite, l’arte
che ci consentiva di fabbricare solamente quegli oggetti utili, che servono
realmente per facilitare le mansioni dell’esistenza. Parimenti, costruiamo
tanto per costruire (o, piuttosto, per avere degli introiti), senza criteri di
adeguamento in base all’ambiente circostante o regolamentazioni dettate dalla
morfologia di un terreno come, per esempio, la vicinanza di una fiume a rischio
inondazione piuttosto che di un vulcano in stato di semiattività.
Giuridicamente questa mania compulsiva di edificare ovunque senza i giusti
permessi si chiama reato di abusivismo e dovrebbe essere punita dalla legge
mentre, assai di frequente, si assiste al parto di ecomostri venuti al mondo
assieme a colate di cemento. «I mortali devono anzitutto imparare ad abitare»,
tuonava la voce di Martin Heidegger, perché «solo se abbiamo la capacità di
abitare possiamo costruire[1]». Un tempo bastava il buon
senso, e la consapevolezza che una casa era La Casa , eretta per accogliere i vari momenti
dell’esistenza di una persona; il posto dove vivere e sopravvivere, far crescere
i propri figli, ospitare la famiglia e gli amici. Oggi, oltre alla seconda casa
(per chi può permettersela), cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter
dormire ed espletare le nostre esigenze sessuali e organiche, un tetto per non
essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Infine, l’uomo odierno pare
aver dimenticato le regole per convivere pacificamente con i suoi simili, al
fine di affrontare in gruppo le difficoltà della vita e realizzare una
condizione di benessere collettivo. Difatti, un dato facilmente verificabile è
la riduzione della sfera sociale, sopratutto ad opera dei media: vengono meno
le occasioni reali di scambio e condivisione, così come le relazioni fisiche
tra individui. Per esempio, momenti squisitamente sociali, al di là dei gusti
personali di ciascuno, come il cinema, le partite allo stadio, i concerti e il
teatro sono spesso sostituite dalla tv o da altri mezzi informatici. Stiamo perciò
diventando Avatar di noi stessi, delle monadi solitarie e autarchiche in un
universo parallelo enormemente distante dalla realtà; come dice Baudrillard, «ciascuno corre sulla propria orbita, chiuso nella propria
bolla, satellizzato[2]». A quanto pare, in mezzo
alla folla di un mondo sovrappopolato, spesso l’individuo è più solo che mai: «massa, buco nero dove il sociale si inabissa[3]», per
citare ancora il sociologo e filosofo francese.
A nostro avviso, tale incompetenza
pratica nello svolgere in maniera fisiologica le attività basilari che si
richiedono a un qualsiasi essere vivente su questo pianeta, ossia evolversi e
riprodursi per conservare le caratteristiche precipue della specie cui si appartiene
e, di conseguenza, sopravvivere all’interno del proprio ecosistema, è l’esito
di un certo paradigma mentale formatosi a partire dall’età moderna e
intensificatosi fino ai giorni nostri, che va sotto il nome di metafisica.
Il questo studio, il termine, secondo l’originale etimologia greca, indica
quella modalità di pensiero che ha progressivamente allontanato l’essere umano
dalla realtà naturale, sia nell’accezione di natura in senso stretto, sia nel
più ampio significato di realtà globale di derivazione presocratica, vale a
dire la Physis
come sostrato fondamentale del reale. Metafisica, difatti, è una parola greca composta
dalla preposizione μετά (metá) che significa “dopo a”, “oltre”, “al di
la”, “al di sopra” e, in aggiunta, dal sostantivo φύσις (physis),
declinato al plurale neutro τα Φυσικά (ta Physiká), traducibile con “i
fenomeni naturali”, “le cose fisiche”. Pertanto, il vocabolo, nella presente
tesi, indica precisamente quel sapere che, mediante un’operazione di astrazione
dalla realtà naturale ha condotto l’essere umano al di sopra della fisica,
oltre la natura. Il processo di astrazione consiste, invero, in un totale
fraintendimento ontologico dell’essenza costitutiva degli enti intra-mondani,
ossia oggetti inanimati, vegetali, animali e, infine, l’uomo. In breve, il
pensiero metafisico ha provocato i fenomeni di in-oggettivazione,
disumanizzazione e disanimalizzazione. In primo luogo, ogni volta che
osserviamo un dato oggetto, esso ci appare, prima
facie, come un qualsiasi articolo da comprare o vendere. Gli utensili, ad
esempio, da originali prodotti della creatività umana, frutto dell’artigianato
e, quindi, dell’abilità tecnica e manuale degli individui, non sono più
considerati, prima di tutto, strumenti utili alle attività tipicamente umane,
bensì mercanzie “belle” o “brutte”, di tendenza o fuori moda, totalmente
spersonalizzate, cui attribuire un prezzo, inserire in un listino e mettere in
vetrina. Parimenti, l’«utilizzabilità» e la «fidatezza» che Heidegger
riconosceva come le essenze delle cose-mezzo[4], sono
state sostituite da pubblicità e commerciabilità. In secondo luogo, da quando
indossiamo le lenti caleidoscopiche del consumismo, le persone intorno a noi
appaiono, innanzitutto, come dei
professionisti retribuiti (di fatto, oggi capita spesso di essere informati del
lavoro che svolge un tale, anche se ignoriamo il suo nome) o come dei
compratori cui liquidare un determinato prodotto, piuttosto che come dei
negozianti da cui poter acquistare (a volte, per esempio, categorizziamo i
nostri conoscenti soprattutto come colleghi di lavoro oppure come clienti). In
ogni caso, i sottoinsiemi entro cui siamo soliti catalogare gli oggetti e i
nostri simili sono diventati, rispettivamente, quello delle merci e quello dei
consumatori. Seguendo le penetranti analisi di Baudrillard sulla società dei
consumi, possiamo dire che le cose assumono i tratti di simulacra[5],
mentre le persone diventano dei veri e propri fantasmi privi di materialità. Anche
membri della natura quali le bestie e le piante sono equivocati per mercanzia
trafficabile, roba accarezzata
dalla Mano Invisibile, da lanciare nel cerchio infuocato del consumismo. Da
ultimo, ci accorgiamo che, in fondo, l’intera realtà circostante finisce per
essere scambiata per quella che originariamente non è: l’economia è determinata
solamente dai valori azionari stabiliti a tavolino dalle borse; le risorse
naturali diventano dei beni privati oggetto di compravendita; le parole “crisi”
o “crescita” assumono inevitabilmente una colorazione finanziaria[6];
l’esistenza di una persona è ridotta a carriera così come il suo corso di studi
serve primariamente per fare curriculum. Anche l’utilizzo indiscriminato della
tecnologia conduce l’homo consumens a
tale deriva virtuale, tipica dell’impostazione metafisica. Innanzitutto, la
simulazione digitale di un hardware è equivocata per la realtà concreta: byte
informatici sostituiscono gli elementi chimici e le persone fatte «di carne e
di sangue[7]»,
come ricordava Feuerbach, diventano avatar analogici. In questo modo, si
assiste al fenomeno che denominiamo dal sociale al social, ovvero l’allarmante transazione
dalla sfera autenticamente sociale, fatta di scambi e relazioni fisiche,
all’universo parallelo ricreato dai vari social network, dove navighiamo senza
una meta precisa in qualità di utenti o amministratori del servizio. E’
inevitabile che col tempo finiremo imbrigliati nella rete fintanto che non
saremo più in grado di distinguere la vita terrena dalla nostra Second Life. Di conseguenza, le persone
appaiono come dei profili incorporei, mentre gli oggetti contano solamente per
la simbologia creata ex novum che si
portano dietro, così come gli animali e le piante fungono soprattutto da cavie
per esperimenti: porcellini d’India, bonsai, OGM. Riassumendo, se ci guardiamo
attorno in maniera accorta e circospetta per capire il mondo che ci circonda,
ci accorgiamo che gli esseri umani, specialmente gli appartenenti alla società
industriale avanzata, ovvero gli abitanti dei Paesi altamente sviluppati, si sono
dimenticati le istruzioni d’uso per comprendere e abitare il luogo in cui
effettivamente vivono e operano, come se avessero smarrito la bussola
dell’esistenza e non sapessero più orientarsi nel proprio habitat e tra i
propri simili. Per questo, diciamo che l’homo sapiens è, in verità, dotato di
una dotta ignoranza, cioè di una logica calcolatrice, di un paradigma
gnoseologico incentrato su di un nozionismo metafisico che ha radicalmente
alterato la percezione e la conoscenza umana del mondo, oltre che la sua azione
trasformatrice sulla natura. In questo senso, l’essere umano non sa più stare
coi piedi per terra ma, alla stregua di un apolide del mondo, vaga come senza
tetto, totalmente indifferente alla propria abitazione naturale, incurante
dell’habitat che lo ospita e assolutamente incapace di amministrare il pianeta
su cui vive, non essendo più in grado di adempiere alle proprie mansioni
domestiche, alle faccende di casa. Allo
stesso modo, il Primate al vertice della catena dell’essere non sa più in che
giorno vive, giacché gli indicatori temporali non sono altro che un susseguirsi
di numeri insignificanti, come le perle seriali e qualitativamente indifferenti
di un’infinita collana, cifra di un continuum storico che assume i tratti di un
tempo mitico eternamente uguale a sé stesso. Parimenti, l’homo consumens ha
perso la testa perché vittima di un’opera di smaterializzazione digitale
perpetuata dai mass media, e di uno stordimento collettivo di natura
capitalistica, che lo rende eternamente frustrato e insoddisfatto, alla
disperata ricerca dell’ultimo gadget alla moda, cavia del consumismo, divertito
nel Paese dei balocchi e apparentemente appagato, bensì svuotato dei suoi più
intrinseci bisogni di felicità. Inoltre, il discendente di Adamo – adamah
in antico ebraico significa “fatto di terra”[8] –, è
divenuto propriamente un extra-terrestre, un alieno, poiché ha costantemente la
testa tra le nuvole di un Iperuranio virtuale e illusorio, in cui le
qualità costitutive degli enti che popolano il reale sono integralmente
travisate e scambiate per qualcos’altro. Pertanto, chiamiamo virtualità astratta
o iperrealtà soprannaturale l’esito cui ci pilota la metafisica, giacché essa
ci porta a misconoscere l’essenza del mondo e delle parti di cui esso si
compone.
Detto ciò, è chiaro che gli abitanti
della cosiddetta Società del “Benessere” non sono effettivamente più in grado
di abitare la terra o di stare al mondo, perché affetti da una endemica
sindrome di alienazione interpretativo-comportamentale, che noi chiamiamo jet-lag
metafisico, patologia che ha reso l’uomo sostanzialmente un vagabondo senza
fissa dimora. Quando e in che modo ci siamo ammalati di jet-lag esistenziale? I
sintomi sono iniziati a partire dall’età moderna, epoca in cui, da una parte,
l’Illuminismo ha dato l’avvio al razionalismo tecnocratico e, dall’altra, la Rivoluzione
Industriale ha innescato il modo di produzione capitalistico.
L’epidemia si è poi allargata per colpa di un intensivo processo di alfabetizzazione
borghese, incentrata su di un’epistemologia tipicamente meta-fisica, dove
l’attributo indica quella particolare tipologia di pensiero scientifico fatto
di tecnocrazia e capitalismo all’ennesima potenza, che ha completamente
travisato il senso e l’essenza di ogni ente intra-mondano, per fini
sperimentali o lucrativi. Infatti, cose, vegetali, fiere e umani sono stati
ontologicamente trasformati in oggetti di manipolazione scientifica o in mera
mercanzia da compravendita. L’equivoco
maggiore dell’erudizione metafisico-borghese è che sappiamo calcolare con
assoluta precisione la circonferenza terrestre ma, viceversa, non siamo più in
grado di occuparne dignitosamente l’area.
Ricapitolando, possiamo affermare
che la luce della ragione
ha finito per abbagliarci e la logica del profitto ne ha approfittato, tant’è
che oggi, accecati dal pensiero metafisico, abbiamo la vista offuscata e, di
conseguenza, non siamo più capaci di guardare (θεωρέιν) le cose del mondo che
ci circondano. Il velo di Maya che non ci permette di vedere
direttamente la realtà naturale è l’effetto-nebbia della logica metafisica,
alla stregua di una cataratta che ostacola la nostra corretta visione del
mondo. Esso corrisponde, grossomodo, alle lenti edulcorate di speciali
occhialini 3D, che ci fanno vedere un mondo del quale non si può dire né che sia
reale né che non lo sia. Ne consegue che l’eccesso di tecnologia ed economia,
nonostante gli evidenti benefici in termini di miglioramento della vita
materiale, ha condotto l’umanità in una condizione di malessere psicofisico,
celato però sotto forma di “benessere” edonistico e immediato,
idolatrato all’insegna di una visione cornucopiana del Paese di Cuccagna, in
cui ogni ben di dio è disponibile immediatamente ‒ basta allungare il braccio; dove
regna l’abbondanza, ma dove l’obesità e l’opulenza non sono altro che una
faccia della medaglia. Il rovescio è, per esempio, la spazzatura che intasa i
confini delle metropoli, che inquina i pozzi acquiferi e i cui rilasci tossici
avvelenano l’atmosfera. The dark side of the earth, così si può dire,
sono le discariche a cielo aperto, le montagne artificiali composte dagli
scarti della produzione industriale, i rifiuti di una società incapace di
gestire le proprie scorie. La concezione della crescita esponenziale come
sviluppo ipertrofico è, sia per il singolo organismo, come ben sappiamo, sia
per l’intero corpo sociale, come ancora fingiamo di ignorare, un tumore
inarrestabile che ha come unico esito finale l’estinzione. In questo senso, il
progresso moderno è di fatto una civilizzazione del suicidio di massa; la nostra è una
cultura dell’harakiri, del masochismo più sadico, dell’autolesionismo,
dell’auto(d)istruzione. Insomma, il “benessere” del mondo dei consumi altro non
è che malessere travestito, assolutamente incurante della persona umana e della
sua salute olistica. A tal proposito, un numero sempre più crescente di
inchieste e studi scientifici dimostra che «l’industria ha significato
sviluppo, ma ha anche prodotto una serie di sostanze chimiche e non (oltre
all’uso di metalli e minerali) che, dispersi nell’ambiente ed entrati nella
catena alimentare, hanno avuto un forte impatto sulla salute[9]».
Ilkka Hansky, professore di ecologia e biologia evoluzionista all’Università di
Helsinki, ha coniato un’espressione, ‘malattia da civilizzazione’, per rendere
comprensibile che «devastando la natura, alteriamo anche gli equilibri del
nostro sistema immunitario. [...] Siamo più ricchi che mai ‒ continua il
professore ‒, eppure danneggiamo l’ambiente pur di crescere a tutti i costi. Ma
questo progressivo allontanamento dalla natura si ritorce contro di noi,
fisicamente e psicologicamente: molte malattie infiammatorie come allergie e
asma, sempre più frequenti nelle metropoli, nascono proprio dalla perdita di
contatto con la “dimensione verde”[10]».
[1] M.
HEIDEGGER, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi
e Discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, 1991, p.107
[3] J.
BAUDRILLARD, All'ombra delle maggioranze silenziose. Ovvero la morte del
sociale, tr. it. di M. G. Camici, Cappelli, Bologna 1978, p. 9
[4] Cfr.
M. HEIDEGGER, “L’origine dell’opera d’arte” in Sentieri Interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia , Firenze, 1968
[5] Cfr. J.
BAUDRILLARD, La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 2008; J.
BAUDRILLARD, Simulacra and Simulation, trad. ing. di S. Faria Glaser, University
of Michigan Press, 1994
[6] Di
notevole interesse è il fenomeno, soltanto apparentemente linguistico, della
modificazione semantica delle parole sotto l’influenza metafisica, ad opera
della pedagogia borghese. E’ paradigmatico, ad esempio, notare come il
saper-fare tipico della saggezza pratica popolare sia diventato il cortese savoir-faire, così come il più garbato savoir-vivre ha tradotto il saper-stare-al
mondo, alquanto più grezzo e, se vogliamo, cinico. Spesso i cosiddetti
“francesismi” rappresentano casi rilevanti di alfabetizzazione borghese.
[7] L.
FEUERBACH, Principi della filosofia
dell’avvenire, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1979, p. 32
[8] F. PASQUERO, a cura di, La Sacra Bibbia ,
Edizioni Paoline, 1968, GENESI 5. - 2, p. 34
[9] G.
MILANO, “L’inquinamento che ci fa stupidi”, in TUTTOSCIENZE, La Stampa del
21/11/2012, p. IV
[10] F.
RIGATELLI, “Perché la civilizzazione ci sta facendo ammalare”, intervista a I.
Hanski, in TUTTOSCIENZE, La
Stampa del 15/02/2012, p. 29
Ermeneutica della Sopravvivenza
Che ne è dell’abitare nella nostra epoca preoccupante? M. Heidegger, “Costruire Abitare Pensare”
«Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra!» F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”
La mia ricerca nasce,
principalmente, dall’osservazione di dati puramente sociologici, che concernono
il modo con cui gli esseri umani contemporanei vivono la propria epoca storica,
filtrati attraverso le intelaiature teoriche di alcuni degli autori classici
della filosofia. Pertanto, sebbene l’input della presente trattazione sia
sostanzialmente di natura sociologica, gli strumenti e la tipologia
dell’analisi sono filosofici, giacché lo studio si avvale soprattutto delle
categorie concettuali dei filosofi, applicate, però, alle problematiche sociali
del momento, grazie anche all’ausilio di più recenti contributi scientifici in
senso stretto, data la natura dell’argomento. In particolare, questa indagine
sorge dalla costernazione di fronte all’inettitudine biologica che sembra aver
colpito il cittadino di stampo occidentale, incapace, a ben vedere, di
intervenire ragionevolmente nel biotopo in cui è inserito, per creare una
nicchia ecologica favorevole alla realizzazione del suo costitutivo bisogno di felicità.
In realtà, tale inettitudine biologica, come abbiamo cercato di mostrare nelle
seguenti pagine, è il risultato di un certo modo di intendere il sapere e,
dunque, di un determinato tipo di pensiero meta-fisico, che noi chiamiamo
“dotta ignoranza”. Di conseguenza, l’obiettivo della qui presente dissertazione
è, da un lato, decifrare criticamente – fin dove è possibile – il senso e le
contraddizioni dell’attuale società dei consumi, per captare il paradigma
epistemologico a essa soggiacente; dall’altro lato, riproporre un modello
alternativo di pensiero, capace di coordinare un insieme di pratiche quotidiane
(faccende domestiche, vedremo il perché) che formino, a loro volta, un’etica dell’abitare.
Da ciò deriva la necessità di una Ermeneutica della Sopravvivenza che,
da una parte, significa strumento teorico per comprendere il presente o metodo
d’indagine atto a interpretare il mondo odierno, individuarne i fenomeni
preminenti e anche gli aspetti irrazionali; dall’altra parte, l’espressione
indica una sorta di bussola etica che orienti l’uomo nel proprio mondo-ambiente,
ovvero una strategia funzionale alla salvaguardia di una vita autenticamente
umana all’interno del suo ecosistema –
un habitus per il proprio habitat. Il programma dell’argomentazione si
divide, perciò, in una pars destruens,
che corrisponde alla prima sezione del lavoro, concepita alla stregua di una
disamina fenomenologica e ontologica dello status quo e, inoltre, in una pars construens, dove si ricerca
un saper-fare originariamente ecosofico che, secondo la nostra umile
proposta, sarebbe ancora radicato nel fertile campo della filosofia contadina. In
ogni caso, il fine ultimo della trattazione resta il
tentativo di riscoprire un’etica eudemonista che abbia a cuore, innanzitutto, la
felicità degli uomini e, quindi, anche la tutela dell’ambiente in cui essi
vivono, in quanto essa rappresenta, a ben vedere, un atteggiamento tipicamente
umanista: prendersi cura della natura è forse la stella polare della cultura
antropocentrica, poiché l’ecosofia pone al centro del suo agire il ben-essere
dell’umanità. In questo senso, l’ecologia rimane un umanesimo.
Zugunruhe. Gli Abitanti del cielo
Uno dei
paradossi a cui la metafisica ci ha condotto è il fatto che, da una parte, ci
ha sradicato dalla terra privandoci del vitale contatto con il suolo naturale
e, di conseguenza, elevandoci a un Iperuranio virtuale ma, dall’altra, ci ha
allo stesso tempo allontanato pure dal cielo, dal momento che non lo degniamo
più di uno sguardo o, nel peggiore dei casi, anch’esso diventa una zona franca
idonea ai traffici tecnocratici e consumistici. L’uomo contemporaneo, infatti,
si è concesso da sé il permesso di soggiorno celeste autoproclamandosi residente del Cielo, per almeno tre
ragioni: una fisica, una ermeneutica e una etica. Innanzitutto l’essere umano, animale
biologicamente terrestre, in virtù delle innovazioni tecnologiche da lui raggiunte
e da sempre mosso dal desiderio di volare, da Icaro in poi è partito alla
conquista dell’aria: dapprima attraverso deltaplani, dirigibili, palloni
aerostatici, poi mediante aerei, elicotteri, jet, fino alle odierne astronavi
supersoniche in grado di perlustrare le regioni galattiche dello spazio. In
questo senso, l’uomo si è fatto extra-terrestre, dal punto di vista fisico[1]. Ma abbattere il muro del
suono può anche ledere quella zona dell’orecchio interno chiamato labirinto,
danneggiando così il sistema vestibolare, responsabile dell’equilibrio generale
del corpo. A partire dall’età moderna ‒ e siamo alla causa ermeneutica ‒
l’essere umano è decollato sopra all’aereo Sviluppo Tecnocratico-Consumistico
intraprendendo un volo pindarico prometeico che gli ha fatto smarrire le
coordinate esistenziali, cosicché oggi risulta incapace di orientarsi tra i
propri simili e apolide del mondo. L’Homo
consumens, in altre parole, ha perso la bussola che gli permetteva
di muoversi saggiamente sul pianeta e appare, per l’appunto, spaesato ed
estraniato. Pertanto, l’animale razionale per eccellenza è diventato
ultra-terreno: un alieno del mondo e una belva sovra-umana per i suoi vicini di
casa. Infine, dal punto di vita etico, l’attributo dell’uomo metafisico, ma pur
sempre mortale, è di credersi sopra-naturale: sia nel senso di voler piegare la
natura ai suoi scopi tecnocratico-consumistici, calpestandola brutalmente, sia
nel senso di reputarsi un essere divino attraverso un processo di esasperata
secolarizzazione, la quale ci ha privati della trascendenza, ossia della
capacità di oltrepassare lo status quo immaginando mondi alternativi a quello
presente. Il ratto della trascendenza ad opera della metafisica comporta,
perciò, la fine dell’utopia: svolazziamo come mosche cieche all’interno di una gabbia
dorata, andando continuamente a sbattere la testa contro vetrine
caleidoscopiche, convinti che questa sia effettivamente la realtà, senza
renderci conto che esiste uno spiraglio di salvezza. Per questo motivo, pare
davvero distante la nozione di Geviert
heideggeriana: «salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini,
condurre i mortali».
Divini, volatili, astri, nuvole:
questi, a ben vedere, sono i legittimi abitanti
del Cielo. Tutti e quattro rappresentano gli oggetti alti da cui il pensiero metafisico ci ha allontanati, in aggiunta
agli elementi prettamente terrestri. La cecità celeste di cui noi cittadini di
stampo occidentale siamo affetti segnala, prima di tutto, una perdita del senso
squisitamente estetico, dal momento che “non abbiamo più tempo” per contemplare
coloro che dimorano l’empireo nella loro sublime bellezza: quanti romantici
escono ancora «a rimirar le stelle», oppure il cuore di chi ancora si riempie
immensamente di gioia, come pare accadesse a Kant, a fissare il «cielo stellato
sopra di sé»? Proprio le stelle, inoltre, sono state fin dall’antichità i primi
strumenti orientativi che coordinavano il passaggio umano sulla terra,
specialmente durante la navigazione per mare. Oggi, anche se è innegabile
l’apporto di sofisticati dispositivi quali radar e GPS, non conosciamo più le
costellazioni e, quindi, non possediamo più una sapienza astrologica. Anzi, se
cercate su un qualsiasi motore di ricerca on-line, scoprirete che adesso le
stelle si possono persino comprare! Lo stesso discorso vale anche per il sole:
in quanto fonte energetica di luce e calore necessaria per la vita sulla terra
nonché naturale clessidra in grado di scandire la giornata dell’uomo è stata,
col tempo, trascurata e sostituita da chiarore e caldo artificiali. Perciò,
anche il confine tra giorno e notte si è fatto meno netto e, spesso, la seconda
assume esattamente i connotati del primo, con un dispendio illogico di
elettricità e di energia psichica. Il francese Baudrillard descrive la
primitività dell’«America siderale», la stella polare intorno a cui gravita
l’intera civiltà occidentale, con le seguenti affilate parole:
«Gli americani sono ossessionati dalla paura che i fuochi si
spengano. Nelle case, le luci stanno accese tutta la notte, nei grattacieli,
gli uffici vuoti restano illuminati. Sulle freeways,
in pieno giorno, le macchine procedono con i fari accesi […]. Senza parlare
delle televisione programmata ventiquattr’ore su ventiquattro, e che spesso
resta accesa in modo allucinante nelle stanze vuote delle case o nelle camere
d’albergo non occupate. Insomma, in America non si accetta di veder insediarsi
la notte, o il riposo, né di veder cessare
il processo tecnico. Tutto deve funzionare senza sosta, non si può dare
tregua alla potenziale artificiale dell’uomo né consentire l’intermittenza dei
cicli naturali (le stagioni, il giorno e la notte, il caldo e il freddo), ma
tendere a un continuum funzionale sovente assurdo[2]».
Se non si osservano più le nuvole,
inoltre, non si conoscono nemmeno le condizioni meteorologiche e, quindi, non
si ha cognizione della stagione in cui si vive. Gli agenti atmosferici vengono
visti come dei nemici da combattere (si pensi alle cannonate sparate per
scongiurare una tempesta), perché colpevoli del “brutto tempo”. L’impressione è
che l’uomo metafisico cerchi con tutti i suoi mezzi di costruire una mono-stagione
caratterizzata da un confort mite e luminoso: un inferno confortevole e
climatizzato. Nemmeno i volatili riescono ad attirate la nostra scombussolata
attenzione. Se presso gli antichi romani, difatti, le traiettorie degli uccelli
erano studiate meticolosamente dagli àuguri per decifrare auspicia divini e, nella civiltà contadina, come attestano numerosi
proverbi popolari[3], annunciavano agli uomini
il mutare delle stagioni e le condizioni climatiche ottimali in cui svolgere i
vari lavori agricoli, attualmente esse divengono, tutt’al più, attrazioni di birdwatching. Ma il legame tra uomo e
uccello (dal latino “aves”) ha subito altri notevoli cambiamenti: da importante
fonte di cibo (carne e uova), imbottitura per indumenti o materassi (penne e
piume), messaggero (piccione viaggiatore), cacciatore (rapaci addestrati con la
falconeria), pescatore (cormorani impiegati nell’attività ittica
mediorientale), il volatile è diventato, nel migliore dei casi, una cavia per
la ricerca biologica e la psicologia comparata o un animale da compagnia (si
pensi ai pappagalli o ai canarini). Beninteso, questi inevitabili mutamenti non
sono affatto i segali di un apocalittico tramonto dell’aristocrazia umana, dal
momento che, ovviamente, sarebbe a dir poco assurdo sostituire le e-mail coi
piccioni viaggiatori! Allo stesso modo, pretendere di fermare la ricerca
scientifica necessaria per il miglioramento della specie umana (nonostante le
denunce del movimento animalista) sarebbe un atto reazionario, per non dire
terroristico. Detto ciò, resta importante segnalare il diverso approccio che
l’uomo ha assunto nei confronti del mondo della natura, mal-trattata e
maneggiata, come un qualsiasi oggetto di esperimento, per scopi puramente tecnocratici
e, come articoli regalo, per ragioni consumistiche[4].
Per quanto riguarda i divini, infine, l’esito dell’oblio del cielo si constata
dalla mancanza di trascendenza dell’uomo contemporaneo, incapace di sperare in
un altrove davvero utopico in cui poter progettare contesti differenti
(migliori?) rispetto alla attuale schiavitù tecnocratico-consumistica.
[1] Qui
tralasciamo, per la complessità e l’ampiezza degli argomenti, le questioni
comunque connesse all’extra-territorialità umana come: l’inquinamento prodotto
dai motori degli aerei, il jet-lag indotto agli uccelli migratori, il fenomeno
dei ‘Nonluoghi’ individuato dall’antropologo Marc Augé, il problema delle
scorie delle navicelle spaziali che intasano la
Via Lattea , la riduzione spasmodica dello
spazio e del tempo che sconcerta la psiche umana.
[2] J. Baudrillard, America, trad. it. di Laura Guarino, SE,
Milano, 2009, p. 60-61
[3] Uno
fra i tanti: «Il cuculo deve venire al cinque di aprile, se non viene al sette
o agli otto, o è stato preso oppure è morto», da A. Selene, Dizionario dei proverbi, Pan libri, 2004
[4] Degno
di nota è il fenomeno dello zugunruhe (dal tedesco Zug, “ migrazione” e Unruhe,
“irrequietezza”): «In etologia, lo zugunruhe è un comportamento irrequieto che
si presenta negli animali migratori, e specialmente negli uccelli, a cui viene
impedito di migrare. Nel caso di animali tenuti in gabbia tale comportamento si
manifesta durante la stagione migratoria (http://it.wikipedia.org/wiki/Zugunruhe)».
domenica 9 giugno 2013
Contro la “Giornata Mondiale dell’Ambiente”
Generalizzando e
semplificando al minimo, solitamente un’occasione come la Giornata Mondiale
dell’Ambiente, indetta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1972 e
celebrata ogni 5 giugno, suscita nelle persone due diversi tipi di reazione. Da
una parte, ci sono i cosiddetti eco-scettici, cioè quelli che pensano: «Ecco,
un’altra roba da comunistacci verdi, pseudo-hippie utopisti, figli dei fiori
figli di papà!». Dall’altra parte, invece, emergono con entusiasmo e spirito di
partecipazione lodevoli iniziative collegate all’evento, mosse però da un certo
moralismo green che fa apparire gli ambientalisti in genere come radical chic,
quand’anche, negli esemplari più estremi, addirittura misantropi snob che sembrano
avere più a cuore le sorti di una non meglio definita Madre Natura piuttosto
che le reali condizioni di vita degli uomini. Com’è facilmente intuibile,
pertanto, l’esito cui tale divisione conduce è un’evidente incomunicabilità tra
le due fazioni, che sfocia in una totale incomprensibilità, seppur la questione
in causa, ovvero la crisi ambientale, sia un problema che tocca chiaramente e
indistintamente ogni essere umano. Come fare, dunque, per abbattere i
pregiudizi che avvolgono gli occhi e le menti di entrambi gli schieramenti, al
fine di imprimere nel DNA degli esseri umani un’imprescindibile consapevolezza
eco-logica, che promuova un’autentica e razionale presa di coscienza sulla
salute del pianeta che, a sua volta, incoraggi delle pratiche quotidiane alternative
a quelle attuali per incrementare il reale ben-essere dell’uomo? In altre
parole, in che modo eco-scettici e ambientalisti possono entrare finalmente in
relazione per innescare insieme una necessaria svolta ecologica?
Penso che un buon inizio sia, per
esempio, far capire alla gente che la Giornata dell’Ambiente non è affatto una roba da
hippie né un momento per predicare (o invocare) l’estinzione della razza umana
sul pianeta Terra, bensì un’ottima opportunità per informarsi seriamente sulla
questione ambientale e riflettere sui modi migliori con cui porvi rimedio. In
particolare, bisogna far capire che fenomeni come il riscaldamento globale, la
deforestazione selvaggia e l’inquinamento atmosferico sono problemi che
interessano, prima di tutto, la salute psicofisica degli individui, e non
(solo) la salvaguardia del panda. Detto altrimenti, il 5 giugno non è la festa
del pollice verde o l’anniversario ante litteram dell’apocalisse, ma un giorno
per riflettere sui nostri stili di vita e sulle conseguenze che essi hanno sul
nostro ben-essere. In questo senso, ritengo che forse sarebbe più opportuno
ribattezzare la “Giornata Mondiale dell’Ambiente” in “Giornata Mondiale della
Felicità (o del Ben-essere) umana”.
Come si è visto, ovviamente la mia è
una critica formale e non sostanziale, che ha come obiettivo contestare la
scelta di attribuire a questa giornata speciale il titolo di “Giornata Mondiale
dell’Ambiente”, appunto. In realtà, condivido e sottoscrivo tutto (o quasi) il
contenuto di questo 5 giugno, ossia le iniziative, le buone pratiche, le
conferenze e gli articoli che a esso si rifanno. Detto altrimenti, mi schiero
contro alla dicitura “Giornata Mondiale dell’Ambiente”, ma sono assolutamente a
favore della Giornata Mondiale dell’Ambiente, ossia alle conseguenze pratiche
che essa mette in moto. La mia disapprovazione riguarda quindi l’immagine che
si vuole dare a tale giornata e, perciò, i rischi che da una certa percezione
della crisi ambientale possono scaturire.
Dal mio punto di vista, la “Giornata
Mondiale dell’Ambiente” può nuocere alla Giornata Mondiale dell’Ambiente.
Infatti, il pericolo è che essa risulti controproducente rispetto allo scopo
che si prefissa e al messaggio che intende veicolare, vale a dire (non
dimentichiamolo) un comportamento sostenibile allo scopo di migliorare le
condizioni di vita degli individui. A parte il pericolo, suscitato pure in
altre occasioni quale la Festa
delle Donne, di interessarci della questione solamente quel momento particolare
per poi fregarsene bellamente durante tutto l’anno, c’è una ragione ancora più
profonda, che concerne il fine ultimo dell’ecologia e, in generale, degli
atteggiamenti ecosostenibili, ovvero la felicità dell’uomo. Chiediamoci: per
quale motivo dovremmo fare la raccolta differenziata, oppure evitare lo spreco
di acqua e cibo, o ancora diminuire la nostra impronta ecologica diminuendo le
emissioni di CO2 nell’aria e impedendo una deforestazione spregiudicata? Rispettiamo
l’ambiente per principio o perché ne va, innanzitutto, della nostra salute e
quindi del nostro ben-essere psicofisico? Per un mero ideale morale che ci fa
apparire tutti più buoni e politically correct o, invece, per un reale e
più che mai attuale (di questi tempi...) bisogno biologico e insieme
esistenziale di autentica sopra(v)vivenza? Ognuno di noi dovrebbe farsi
interrogativi di questo genere e cercare una risposta soddisfacente e, quanto
più possibile, razionale. Io mi sono posto tali domande e propendo senza
esitazioni verso le seconde opzioni. Penso che se le persone riuscissero a
capire che distruggendo la biodiversità e inquinando gli ecosistemi si ostacola
la realizzazione di una società migliore, ovvero giusta, felice, pacifica,
salutare, in una sola parola razionale, le azioni green si moltiplicherebbero a
vista d’occhio. E che se gli esseri umani comprendessero che è in gioco non
solo il ben-essere delle future generazioni ma soprattutto il loro ben-essere
immediato, le iniziative organizzate in occasione della Giornata Mondiale
dell’Ambiente sarebbero forse più efficaci, proprio perché indirizzate verso
uno scopo ben definito che, oltretutto, interessa ogni singolo individuo su
questa terra (tolti forse i masochisti, i guerrafondai e i malati di mente).
Per concludere, non scordiamoci,
come ci viene rammentato ogni 8 marzo al cospetto di un mazzo di mimose, che
ogni giorno è propenso per rendere migliore la nostra esistenza, diminuendo le
sofferenze degli esseri viventi sul pianeta Terra per aumentare il livello di
felicità. Sono sicuro che anche l’Ambiente è d’accordo con me. Cara Madre
Natura ti scrivo...
Da manicomio - Impressioni post elezioni
Mi svegliai di buon umore, perché mi attendeva una giornata speciale. Ero
infatti pronto a rispondere responsabilmente all'appello della Repubblica Italiana,
che mi invita a manifestare il mio diritto/dovere in qualità di cittadino
maggiorenne, libero, partecipante alla cosa pubblica. Lo Stato mi chiamava alle
urne per esprimere il mio voto che avrebbe contribuito ‒ nel limite del
porcellum ‒ a eleggere coloro che mi avrebbero rappresentato nelle istituzioni
democratiche del Bel Paese. Mi dirigevo baldanzoso verso la scuola elementare
dove era stato allestito il seggio elettorale della circoscrizione cui appartengo.
«Documento d'identità? Celo. Tessera elettorale? Celo. Idea su chi
votare?...Celo». Passai davanti ai tabelloni riportanti le liste di partito, i
canditati alla Camera e al Senato delle varie coalizioni, ma non li degnai di
uno sguardo perché avevo bene in mente chi avrebbe ottenuto la mia fiducia. «Buongiorno»,
dissi al carabiniere. «Il cittadino è legittimato a votare», mi assicurò il
giovane scrutatore. E finalmente ero nella cabina. Presi la matita e senza
esitazioni apposi la crocetta sul simbolo prescelto. Piegai la scheda (non senza
difficoltà, lo ammetto) e con orgoglio la infilai nella fessura dell’apposito
scatolone. Ancora una volta avevo manifestato il mio senso civico e, come me,
milioni di aventi diritto. Il più era fatto; non restava che aspettare.
Le prime indiscrezioni segnalavano un discreto calo di afflusso alle urne,
rispetto alle precedenti elezioni politiche. «Vabbé, qualche migliaia di aventi
diritto in meno non cambierà così sostanzialmente l'esito del voto». Nel primo
pomeriggio le proiezioni parziali non erano molto confortanti. «Vabbé, ma sono
parziali!» Ora dopo ora, gli exit poll disegnavano una situazione sempre più
drammatica e, tra gli specialisti negli studi televisivi, aleggiava
frequentemente la parola "ingovernabilità"... «Vabbé!».
«Non voglio crederci. Ma come è possibile?? Un'altra volta?! Adesso basta, è uno scandalo, sono indignato, questa volta me ne vado sul serio!!!». Ma
improvvisamente uno tsunami di dilemmi mi investe: «Io ho votato correttamente?
Il simbolo crocettato era effettivamente quello prescelto?? Ma era a destra o a
sinistra, in alto o in basso??? La scheda per il Senato era rosa o gialla?!?».
Di colpo vengo risucchiato in una vertiginosa inquietudine: «Lo sapevo, ci sono
stati i brogli! Cavolo, avevano anche detto di bagnare la punta della matita!».
Non riesco a darmi pace; i dubbi mi assaltano. «Magari ho lasciato scheda
bianca senza accorgermene. O forse ho fatto scheda nulla involontariamente... E
se invece l'inconscio, proprio al momento di crocettare, mi avesse fatto
cambiare idea? Oppure un genio maligno, facendosi beffa del carabiniere e all'insaputa
degli scrutatori, si è intrufolato nella cabina impossessandosi del mio corpo da
cittadino libero e avente diritto! Ma, dopotutto, sono così sicuro di essere
andato a votare? E di essermi effettivamente svegliato questa mattina? E se
fosse tutto un incubo?». Forse sono pazzo, da ricoverare in
manicomio. E, come me, milioni di cittadini italiani aventi diritto.
Al tempo si comanda?
“Al tempo, ai
matti e ai padroni non si comanda”, recita un noto proverbio italiano. In
generale resta sempre valido il consiglio di non esprimersi tramite frasi fatte
o modi di dire come sono, appunto, i proverbi, ma piuttosto di usare parole
proprie (come, per esempio, esortano a fare i prof quando raccomandano il
metodo di studio più appropriato), solitamente segno di un proprio pensiero
anteriore all’esposizione orale e posteriore alla mera memorizzazione di
nozioni. Tuttavia, spesso anche i proverbi rappresentano delle interessanti
formule linguistiche, espressioni di una cultura antica in cui la saggezza
collettiva e l’educazione orale avevano un peso determinante. Allo scopo di
preservare tale importante patrimonio culturale è sorta, infatti, la paremiologia,
disciplina che si interseca con altri campi di studio quali la sociologia, la
filosofia, la storia, la meteorologia, la religione, l’agronomia e la zoologia.
In certi casi, però, è opportuno esaminare il rapporto tra le modalità con cui
una lingua comunica la propria concezione di verità e la verità che il proprio
periodo storico rivela. In particolare, risulta necessario analizzare il modo
con cui le parole si modificano nel tempo, andando a plasmare le idee degli
uomini e pertanto anche il loro comportamento. Capita infatti che pensiero,
linguaggio e azioni si influiscano vicendevolmente e che qualcuno di essi
rimanga, per così dire, indietro rispetto alle altre, perché ormai desueto o
incompatibile coi modi con cui l’uomo esprime la verità di un dato periodo
storico. Il caso che prenderemo in considerazione in questa sede è suggerito
dalla massima iniziale. Domandiamoci dunque se il detto sopracitato sia ancora
valido oggigiorno, ovvero se esso rifletta tutt’ora una qualche verità de
facto.
In realtà, esiste anche una
variazione, diciamo, cacofonica dell’adagio con cui abbiamo aperto, ossia “Al
tempo, al culo e ai padroni non si comanda”. Ora, poiché il discorso
risulterebbe assai lungo e complicato, lasciando da parte matti, ani, o
padroni, ciò su cui ci soffermeremo è il concetto che compare in ambedue le
varianti dell’aforisma, cioè il tempo. Innanzitutto, il termine italiano può
significare almeno due cose: il tempo come scorrere degli eventi, quindi
storia; il tempo atmosferico, ossia il clima. A noi qui interessa la seconda
accezione che il lemma può assumere. Effettivamente, fino a un certo momento
della storia il clima era davvero qualcosa che non poteva essere comandato
dagli uomini, alla stregua di una entità incontrollabile, misteriosa, quasi
magica e imperscrutabile, come gli dei, che soggiogavano gli esseri umani e a
cui quest’ultimi dovevano avvicinarsi in maniera cauta e prudente, data l’alta natura
dalla questione. Non a caso, le prime divinità venerate o avversate dalle
antiche civiltà erano esattamente gli agenti atmosferici quali il sole, i
fulmini e le nuvole, forieri dei fenomeni meteorologici che, nel bene e nel
male, decidevano le vite di innumerevoli individui: siccità, tempeste,
inondazioni, uragani, ecc. Per questi motivi, la meteorologia fu una della più
remote arti coi l’uomo si cimentò, attraverso l’invenzione di strumenti adatti,
per ragioni evidentemente vitali come la coltivazione e l’irrigazione dei campi
o la navigazione. Di conseguenza, il motto a cui stiamo facendo riferimento,
aveva una sua effettiva validità in passato, dal momento che era vero
che gli uomini potevano poco o nulla, con le loro misere tecnologie, al
cospetto di forze naturali così potenti e lontane nello spazio. Cionondimeno,
l’uomo ha da sempre cercato di interpretare i segni della natura per capire il
tempo atmosferico, in genere attraverso un metodo d’indagine induttivo basato
sull’associazione di casi simili ricorrenti nelle stesse condizioni
atmosferiche, ad esempio osservando, alla stregua di attenti etnologi ante
litteram, il comportamento degli animali prima di determinati fenomeni
climatici. In questo senso, possiamo affermare che l’uomo è sempre stato,
seppur in maniera vaga e imprecisa, un meteorologo, come testimonia il
peculiare desiderio umano di leggere il grande libro della natura al fine di
carpirne i segreti. D’altro canto, ogni essere vivente su questo pianeta
possiede delle capacità più o meno efficaci che gli consentono di effettuare
delle previsioni approssimative sul clima. E l’uomo non ne è certamente da
meno, in quanto animale sulla Terra.
Successivamente, le idee degli
uomini si sono evolute (per certi versi), così come le loro applicazioni
tecnologiche: la natura diviene sempre meno potente e incontrollabile grazie
alla cultura. Le nuvole si fecero in qualche modo meno lontane e si configurò,
perciò, un’epoca in cui fu possibile prevedere il clima, ossia annunciare in
anticipo, in virtù di calcoli e sofisticate apparecchiature, l’esito indicativo
delle condizioni climatiche che si sarebbero manifestate nel breve futuro.
Questa abilità umana, col passare del tempo e con l’affinarsi delle tecniche di
calcolo, si è fatta sempre più precisa, rendendo l’uomo l’unico essere vivente
in grado di avere la consapevolezza razionale delle condizione climatiche
dell’avvenire. Arrivò poi un’era in cui l’homo sapiens divenne addirittura capace
di interferire col clima, vale dire modificare volontariamente il naturale
corso dei fenomeni atmosferici, per renderlo favorevole alle proprie attività
economiche. Stiamo parlando, ad esempio, delle cannonate sparate in cielo per
scongiurare una tempesta in arrivo. Tuttavia, capitò pure che le attività
dell’uomo interferissero al di là delle sue intenzioni sul clima: effetto
serra, surriscaldamento globale del pianeta, aumento delle temperature,
scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del livello del mare, eventi
meteorologici estremi, sono gli esiti che un certo modo di fare spiccatamente
umano produsse, i quali, passati inosservati per troppo tempo, sono oggi
studiati attentamente da scienziati e portati alla ribalta dai cosiddetti
ambientalisti o ecologisti, che dir si voglia.
Come abbiamo visto, le idee
(incubatrici di tecnica) e le azioni delle persone sono cambiate nei secoli,
apportando notevoli conseguenze al problema di cui si stiamo occupando, ossia
il concetto di tempo atmosferico e la sua relazione con la rappresentazione che
l’uomo ha di esso. Tuttavia, ci accorgiamo adesso che il linguaggio non ha
fedelmente accompagnato pensiero e azione in questa trasformazione, se ancora
oggi è lecito asserire con convinzione una sentenza come “al tempo non si
comanda”. Magari uno non pensa sempre a tutto quello che dice e parla senza
chiedersi seriamente che significato abbiano le sue parole, dando aria alla sua
bocca. Ma più sovente ancora, succede che le persone possiedano un linguaggio
arretrato rispetto alle mutate condizioni storiche, come dimostra il caso
appena esaminato. Perché è senz’altro vero che al tempo non si comanda mai
totalmente, come ci insegnano i sismologhi o i vulcanologi. Ma è anche vero che
non possiamo più lamentarci in continuazione del “brutto” tempo o piangerci
addosso quando “capitano” eventi meteorologici paranormali, maledicendo la
sorte o qualche celata divinità celeste, perché anche noi siamo in parte
responsabili. Allo stesso modo, non dovremmo più subire in maniera passiva un
tornado o un nubifragio, come se fosse una piaga mandata dall’alto e a cui noi
nulla possiamo, bensì comprendere che, innanzitutto, ciò è anche colpa nostra e
delle nostre abitudini quotidiane e che, in secondo luogo (a discapito di
quello che insinuano i proverbi e i luoghi comuni), abbiamo finito per
comandare eccessivamente al tempo, al punto che esso ora si sta
ribellando.
P.S. Questa
riflessione è nata in seguito a un colloquio con mia nonna, la quale commentava
con dolore misto a rassegnazione i traumi materiali e mentali che degli
alluvionati hanno dovuto subire a causa di un nubifragio in alcune regioni del
centro Europa, appresi dalle prime pagine di un quotidiano nazionale. Dopo alla
commossa lettura delle tragiche notizie, il suo commento a caldo è stato:
“Povera gente... Tanto al tempo non si comanda”. Da qui ho iniziato a ragionare
sulla percezione che molta gente, in buona fede e inconsciamente, ha di alcuni
fatti della realtà e, a maggior ragione, sulle responsabilità che il normale
sistema di informazioni ha su tale percezione.
martedì 4 giugno 2013
Ho trovato risposte
Ho trovato risposte nel gelo del
campo,
tra lo scricchiolare delle fragili
radici.
Quando i corpi si coprono dal
freddo
ed emerge l’erotismo dei muscoli,
dei nervi, delle ossa.
Recalcitrano energia
dopo aver assimilato calorie dal
nutrimento di radici fragili,
ancorate ad un terreno ibernato, ma
per nulla morto, anzi in attesa
quando la mancanza è frontiera del
raccolto;
quando il bianco è il riflesso
potenziale di tutti i colori.
Apocalesse
La fine del mondo arriverà
In un giorno assolato d’estate,
Sotto al cielo sgombro di nubi,
Senza fare nemmeno rumore,
Come un pesce che grida il dolore
Di una vita pura ed asettica.
Istanti lentissimi,
Tremolii immortalati
A gonfiare l’aria di vuoto.
Il nulla che annulla e nullifica.
Dal nulla
Il sonno atroce ci culla,
Spensierato nei dolci martiri,
sacrificati al vortice cosmico
di tempi mortali.
CORSIVI MIEI (DAL CANTO MIO)
Corsivi miei,
a issar bandiera, tra le righe di una terra straniera.
Corsivi miei,
fiera andatura, tra i puntini in armatura nera.
Dal canto mio lo so
Non sono un artista
Ma un fuoripista
Di rime e rondò…
Dal canto mio lo so
Non sono un poeta
Ma carta avanzata ancora ne ho…
Corsivi miei,
corsari audaci, cari amici mai piegati agli avversari.
Dal canto mio lo so
Non sono un cantante
Ma un musicante
Di note e però…
Dal canto mio lo so
Non sono un poeta
Ma carta avanzata
Ancora ne ho…
Dal canto mio lo so
Non sono un poeta
Ma carta sprecata ancora ne ho…
È l'inquietudine!
che non ti da pace,
che ti svuota dentro;
ti rosicchia l’anima come un tarlo,
rubandoti il sorriso.
Ti rode l’esofago
Fin nelle viscere più profonde dello spirito,
dentro allo stomaco
su fino alla gola,
dove una morsa stretta impedisce la parola.
che tiene accesa la fiammella della Verità.
Ti rende insoddisfatto del presente
costringendoti alla continua ricerca
di un futuro migliore.
E’ il sentimento che guida la critica
alimentando i semi dell’utopia.
R e L (Estate)
Grilli che gracchiano, arroccati e ancora fragili.
Arsure della terra bruciata dal calore.
Sudore nella barba di aspri agricoltori.
Aratri pei raccolti, frugali mandriani
Sul mare reti georgiche di rughe, pescatori!
Però scioglie un acqua placida,
fluttuante, liscia, limpida,
Ruscelli ancora sgorgano su limai e vettovaglie.
Lieto il mio fluire lambisce il plenilunio.
Lievi allori d’aglio parole deglutiscono...
Neve (La benedizione)
Ogni cosa è battezzata.
L’aria si pulisce gli occhi.
Si genuflettono i rami e si fanno le ossa.
Le foglie tremano prive
di lamento, in attesa della reincarnazione.
Mi osservano i
tronchi, contemplando la cerimonia e tonificando gli arti.
La terra si purifica
e ripulisce il sangue
che le corre in grembo e nutre le radici fameliche.
Nel sottosuolo le
bestie addormentate si godono il mistero, sognando la dolce primavera.
Le fiere in superficie mettono pelo e mandano un passerotto,
loro messaggero, in avanscoperta:
«Niente nuove» mugghia
l’ugola di un cane.
La campagna è saggia e rimbocca i suoi semi.
I giochi dei bambini sono invocazioni di bene
e i loro giubili augurano fortuna.
Zigzag
Due copertoni neri, tenuti assieme da una ventina di raggi
in ferro, pesanti come il piombo, scorrono a zigzag.
Calpestare la cresta verde a metà sterrato non conviene.
Il vento arrugginito dal ferro corrode il cielo di piombo,
dove i raggi del sole sono mantenuti e coperti da nubi d’insieme.
Tempesta d’erba in arrivo. Ci si ripara ingobbendosi al
manubrio.
Anche oggi l’arrivo non è stato segnato e
ad aspettarci resta solo la nebbia.
Quattro sterili anatre asmatiche tra le parentesi tonde
dell’acqua.
Alcol Piombo Silenzio.
Utopia
Il sogno ad occhi aperti
ci guida,
orientando il nostro agire;
come la stella polare
apre l’orizzonte.
Viticoltori
Schiene ricurve
a riflettere i raggi d’agosto;
come rami sudati
col capo chinato;
girasoli bruciati, dalla lustra corteccia:
piccole gobbe
sulla gobba della collina.
Meteoriti
Capita ogni tanto
(almeno una volta nella vita)
che arrivi un asteroide
ad attivare la fissione
delle tue pillole di potenzialità,
così da dischiudere
un luminoso fascio
di realizzazioni,
che si espande lungo
la tua esistenza,
irradiando ciò che
ti circonda.
Solidarietà
Le capre se stanno sparse
a brucare le sterpaglie;
ognuna tra i suoi vaghi pensieri.
Qua e là conigli:
occhi vigili.
La poiana già sorvola le sue prede.
Un belato in codice
e la ritirata in tana.
La poiana inverte la rotta.
Passano i giorni -
sempre più sterpaglia.
I conigli pregano e resistono;
la poiana studia.
Gli occhi attenti non bastano
quando i belati svaniscono.
La poiana si sfama.
Gavrilo Princip
Nato nella storia, fottutamente noto.
Scheggia della Nato, eppur si deve andar…
Cavalca ancora l’onda, frontiera degli eroi.
Studiava anatomia del sire imperator…
Firmava con la polvere, pseudonimo principe.
La morte dell'eremita
L’agonia del mio cuore:
tuoni isolati sulla terra buia,
tamburi nella selva oscura,
rintocchi di un campanile dismesso.
Si allungano lentamente i giorni
mentre i miei giorni s’accorciano.
Spirare a mezzogiorno
quando la natura tutta sta per risvegliarsi.
Mani dietro la schiena
Mani dietro la schiena
passeggia - passa il paesaggio -
sotto al rado fogliame
alla ricerca di un raggio appannato.
La vista rauca
invoca un ultimo, baluardo, desiderio.
Mani dietro la schiena
pagaia
il suo cucchiaino olivastro
dentro al suo sporco caffè.
Scruta oltre al vetro
il sentiero dismesso.
Sorride
al suo sordo passaggio
il vento, compagno instancabile
di pomeriggi aspri.
Quale minuto, invisibile
segreto
nascondono le aride nocche?
Futuro
Bisognerebbe tornare
a impugnare la terra –
gustarne la polpa, mordendo i suoi seni;
odorarne l’aroma, fiutando nel vento;
udirne il battito, ascoltando rumori;
osservarne la vita, contemplando i colori.
Bisognerebbe tornare
a cantare alle stelle –
lucciole nella lucida notte,
e della luna ascoltare la voce,
dalla faccia scalfita che par cotta e tace.
Bisognerebbe tornare
ad usare proverbi –
leggere tra le rughe dei vecchi,
guardando alle fiere, essendo noi uomini,
discorrere coi santi, conoscerne i nomi.
Bisognerebbe tornare
a dialogare con le bestie –
son fatti di versi i nostri poemi.
Spargiamo sementi tra i solchi del cuore;
ariamo ferite e ruminiamo parole.
Bisognerebbe tornare
a colloquiare con le piante,
per crescere forti e radicar tra la gente.
Stillanti di linfa
respiriamo abbracciati alla vita,
finché la corteccia comanda alle dita.
Bisognerebbe tornare
a parlare da soli:
per rinsavire un pochino, conoscerci appena.
Bisognerebbe tornare
a parlare del tempo –
di come vanno le cose
per propria stagione.
Toccare il silenzio del nubile sole,
seguirne l’anello, sentirne il calore.
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