mercoledì 25 novembre 2015

Wall-e



Wall-e è un cartone animato distopico: un’altra perla inanellata dalla Pixar in quel filone di cartoon per adulti molto pregevoli. Il protagonista è un piccolo robottino che si aggira tra i resti di un mondo futuro (prossimo?) muto e devastato, ricoperto da grattacieli di immondizia, in compagnia di una blatta che lo segue ovunque. E’ un automa addetto alla rimozione dei rifiuti, ma dotato di una Spiritualità Intelligente, potremmo dire, contrassegnata da uno sguardo melanconico. Wall-e sembra infatti provare compassione per gli oggetti che non servono più, e adora la scena d’amore di un vecchio film in videocassetta – simbolo di un passato ormai estinto. La sua solitaria rutine è spezzata dall’arrivo di Eva, robot avanguardistico e super efficiente, inviato da un’astronave con la missione di cercare forme di vita sulla Terra. Dopo una fredda e scontrosa indifferenza da parte di Eve, il ghiaccio si scioglie grazie al calore di Wall-e, che la accudisce con cura anche se lei non è cosciente. I due personaggi finiranno per volersi bene: a dir poco suggestiva la scena che riprende la danza luminosa dell’innamoramento nel buio siderale, come due insetti. Ma essi aiuteranno anche gli esseri umani a comprendere l’importanza del contatto fisico tra persone, oltreché con la realtà materiale, in un universo parallelo ridotto a touch screen.
Oltre al riferimento al cinema, la musica jazz produce un effetto seppia retrò, peraltro straniante, dal momento che la storia è ambientata nel futuro. Altro aspetto importante della pellicola è il rapporto “moderno” che si instaura tra Wall-e ed Eva. In quanto robot, ovviamente loro non hanno una sessualità vera e propria. Tuttavia, i propri nomi ci suggeriscono che il primo sia maschio e la seconda femmina. La cosa interessante, però, è che essi non possiedono gli attributi stereotipati tradizionali tipici, per esempio, dei vecchi cartoni Disney. Infatti, Wall-e ha ben poco di “maschio”: svolge lavori domestici come un perfetto casalingo; ha una personalità sensibile, romantica e affettuosa; a volte è un pasticcione. L’opposto di Eva: decisa e autorevole – in poche parole, una che porta i pantaloni.
Vita, terra, indifferenziato: sono le parole chiave con cui si può riassumere il capolavoro d’animazione del regista Andrew Stanton. La prima è simboleggiata da una fragile pianticina, cresciuta chissà come in mezzo alle scorie post-apocalittiche della compagnia “Buy n Large”. Essa rappresenta l’unica forma di vita sulla Terra, in grado di riprodursi grazie alla fotosintesi clorofilliana. La specie umana, invece, è composta da passeggeri sovrappeso a bordo di una nave da crociera che viaggia nell’universo. Gli uomini, costantemente seduti e con gli occhi vissi su un monitor, hanno ormai quasi del tutto perduto l’uso degli arti, i cui muscoli sono atrofizzati (ci si chiede come nascono i bambini). Insomma, un corpo senza organi, per dirla à la Deleuze. Gli esemplari Homo Sapiens rimasti sono serviti/schiavizzati da un complesso sistema di computer che, su ordine del capitano del vascello spaziale (o meglio del timone smart, versione 2.0 del noto Hall di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick), svolge ogni attività “vitale”. Le macchine, di fatto, regolano ogni momento della giornata di questi individui: dal cibo (beveroni ingeriti con cannuccia) alla toilette personale.
La terra è l’elemento primordiale per eccellenza, secondo solo all’acqua, da cui nasce ogni cosa. Ma all’interno della nave da crociera intergalattica, asettica quanto cibernetica, essa è considerata dalle macchine un “agente contaminante” da pulire immediatamente. E quando il capitano acquisisce informazioni ulteriori su questa strana sostanza, la curiosità verso un sapere e una dimensione (l’agri-cultura) dimenticati, lo porta a scoprire il significato di altre esperienze scomparse quali “fattoria”, “festa rurale” ecc. Tornare alla terra, è il messaggio principale del film: sporchiamoci nuovamente le mani e camminiamo sul suolo.
Indifferenziato è, prima di tutto, il genere umano: una massa omologata dagli annunci di un altoparlante che invita/comanda di vestirsi di «blu, il nuovo rosso». Il signore del proprio ex pianeta, ormai defenestrato (auto-de-territorializzato) dal suo regno, ha smarrito la linfa del pluralismo o alterità culturale – oltre che la biodiversità – cosicché si sposta sopra al suo “trono”, a cui è già stato tracciato un percorso obbligato. Tra l’altro, anche le macchine sbagliate, ossia difettose, potremmo dire “non allineate” alle direttive per cui sono state programmate, sono rinchiuse in speciali manicomi per robot. Esse, alla stregua degli emarginati “fuori uso” o disfunzionali di Herbert Marcuse, aiuteranno Wall-e e Eva nella loro insurrezione/ammutinamento finale. In seconda battuta, indifferenziata è la spazzatura che ha costretto l’umanità a lasciare la propria dimora e che, inoltre, Wall-e smista con estrema attenzione e dedizione, andando a raccattare le cianfrusaglie inutili del passato. Come non pensare, a questo punto, a Italo Calvino il quale, urbanista di castelli di carte, durante il suo tour delle città invisibili, fa tappa a Leonia. Cinta all’interno di mura costituite da rifiuti, ogni giorno questa polis riparte da zero: al mattino tutto è nuovo, mentre le robe vecchie vengono gettate via. Aggiornamento costante e download quotidiano[2].
Forse, in qualche angolo sperduto di universo – magari, custodita proprio nel poco terriccio dentro a un vecchio scarpone finito in discarica – si nasconde una pianticella color verde speranza che, come la luce smeraldo del faro de Il grande Gatsby, offre la forza al protagonista per continuare risalire la corrente della vita. Come la stella polare che guida i naviganti durante la traversata sulle onde del mare tumultuoso della liquidità postmoderna, offrendo loro orientamento nel freddo buio della nera notte, pur nell’incertezza di trovare la terraferma alla fine del viaggio intergalattico: un senso alla storia e una direzione a un’umanità aliena e alienata. O, se non una pianta, per lo meno un seme. Il film, infine, è anche un ottimo invito a riparare, invece di buttare via e sostituire col nuovo. L’avventura umana ricomincia; anche se, questa volta, con l’aiuto dei robot. L’arte, come mostrano i titoli di coda, può nuovamente raccontare la vita.
P.S. Per una lettura originale del tema, si veda Gianluca Cuozzo, Filosofia delle cose ultime. Da Walter Benjamin a Wall-E, Moretti e Vitali, Bergamo, 2013.

[2] I. CALVINO, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972.

martedì 24 novembre 2015

La nostra battaglia

#Parigi #terrorismo


In seguito ai tremendi episodi parigini, da più parti si è levato l’appello a non lasciarsi travolgere dalla strategia della paura dei terroristi ma, al contrario, di “tornare a una vita normale”. Ma che cos’è la normalità? Forse mai nella storia una parola è stata così bizzarra come “normalità”. Il razzismo scientifico ha imposto dei criteri “oggettivi” per dividere i sani o normali dai malati o strani. Per i medici nazisti i normali erano gli appartenenti alla razza ariana. Prima della chiusura dei manicomi, i pazzi erano i non-normali. Insomma, parlare di normalità vuol dire in ogni caso tracciare una linea di demarcazione più o meno netta, il più delle volte arbitraria, rispetto a uno stato di cose che si giudica “regolare”.
Certo, va detto che la reazione per tornare, se non altro, a una quotidianità appare più che legittima. Effettivamente, come è stato giustamente ripetuto, i terroristi vogliono estirpare le radici della cultura occidentale per imporre un perpetuo stato di emergenza, un regime illiberale, antidemocratico, assurdo. Pertanto, se i cittadini delle città europee rispondono uscendo ancora di casa per svolgere quelle attività così ordinarie come andare allo stadio, assistere a uno spettacolo in un teatro o frequentare un caffè, ciò significa resistere al tentativo oscurantista dei fanatici.
Tuttavia, bisogna domandarsi di nuovo che cosa s’intende per normalità… Le catastrofi sono il luogo in cui ci si volta indietro per osservare obliquamente, da un altro punto di vista, le tendenze che hanno portato alla rovina. D’altra parte, in greco antico, “catastrofe” indicava appunto la scrittura dell’ultimo verso di un poema epico, in cui si decidono le sorti dell’eroe. Essa rappresenta perciò il punto di svolta del dramma, il cambio di rotta, onde evitare un finale tragico. La strage di Parigi è stata evidentemente una catastrofe, ma sarebbe opportuno un esame (di coscienza?) più profondo, al di là delle sole cause strutturali – politiche, militari, ideologiche ecc. – della vicenda. Forse, proprio certe nostre abitudini “occidentali” sono all’origine del radicalismo islamista. Forse, quella che consideriamo la normalità nasconde nel suo seno il virus della tragedia, il parassita in potenza che, a nostra insaputa, cresce dentro il corpo malato della nostra società del “benessere”. Forse, il vuoto entro cui si è instaurato l’Isis non è semplicemente un buco di natura politica ma, viceversa, è l’esito di uno scavo dell’anima perpetuato dalla civiltà dello spreco – e non solo dalle trivellatrici di petrolio. Forse, tale voragine è il lavoro del tarlo di un’etica del lavoro divenuta immorale, che vede le persone soltanto come dei consumatori, delle macchine per produrre e spendere. Forse i giovani si sentono inutili, senza futuro, disorientati e, quindi, cercano un motivo per dare un senso alla loro sopravvivenza inerziale. Cercano uno scopo, anche suicida, per riempire il loro spirito sottovuoto. Privi di ideali, essi si accontentano di ideologie, che li guidino verso un qualcosa. Senza valori e punti di riferimento, si aggrappano disperatamente a una bussola esistenziale. Non importa se questa si chiami Corano, Bibbia – al tempo dei crociati –, droga o Hitler; vogliono qualcosa per poter urlare al mondo: “E’ la mia battaglia”. La loro guerra straordinaria per uscire dalla banalità di un esistenza normale.
Sia chiaro, tutto ciò non significa affatto rigettare integralmente le nobilissime conquiste della democrazia occidentale. Essa è stata realmente la patria in cui sono sorti ideali e valori che costituiscono dei grandi progressi per l’umanità e che, tutti insieme, dobbiamo custodire per il futuro. Allo stesso modo, però, occorre anche un ripensamento radicale del passato e del presente dell’uomo, per dare di nuovo un senso alla nostra storia.

Preghiera per Parigi (13 novembre 2015)



Che la neve possa posarsi, un giorno,
sopra ai vostri aridi cuori;
che dalle tenebre delle vostre anime
possa un giorno risorgere la fiaccola della compassione;
che una scintilla di luce
possa di nuovo brillare nei vostri occhi cupi e spenti,
e che le stelle nuovamente colmino di meraviglia le pupille accecate dal diabolico scintillio delle spade;
che i profumi delle spezie ricoprano l’odore acre della polvere da sparo,
e si spargano nelle case delle vostre famiglie;
che i timpani delle vostre orecchie possano udire l’armonia della musica
invece che raffiche di armi, grida di dolore e morte;
che tra le barbe nere possa magari risplendere il sorriso gaio dell’ironia;
che i palmi delle vostre mani possano reggere libri e non più fucili.
Che un raggio di sole possa finalmente fendere
la pietra ghiacciata che avete al posto del cuore.
Che riescano a germogliare i fiori della civiltà
tra le crepe del vostro deserto interiore.
Che sul suolo brullo della vostra terra
le gocce del pianto possano servire per irrigare semi di pace e giustizia,
e che le lacrime riescano a lavare la stoffa insanguinata delle vostre tuniche.
Che la notte si accenda a festa di comete silenziose e di fuochi pirotecnici,
una volta spenti i bagliori delle bombe e i fulmini artificiali,
e che i tuoni di rabbia e gli scoppi degli spari si trasformino in risate e dolci canti.
Che il giorno riempia di vita e di colori accesi i passi dei vostri bambini:
che per incantesimo appuntiti pastelli
prendano il posto dei coltelli affilati.
Che la marcia dei soldati diventi una danza
per le strade delle vostre città, dove possano esplodere arte e bellezza;
che dov’erano arsenali e caserme e bunker
sorgano biblioteche e teatri, musei e stadi, caffè e sale da ballo, scuole e piazze.

E che in mezzo alle nuvole del nostro cielo
tornino a volare aquiloni e petali di felicità.
Che possiate mettervi a dormire, infine,
senza questa paura odiosa che vi terrorizza
e svegliarvi al mattino pregando Amore.