domenica 4 gennaio 2015

“VA’ A QUEL PAESE”. Parolacce e mondo contadino



Sarebbe molto interessante un saggio socio-antropologico sul turpiloquio, partendo dal presupposto secondo cui il linguaggio sboccato e scurrile sia una costante nella storia della cultura umana. Lo studio prevedrebbe sia un’analisi diacronica (storica) sia una disamina sincronica (socio-antropologica) delle parolacce, ovvero una ricerca sull’evoluzione degli improperi nel corso del tempo e anche sulle differenze che si incontrano nelle diverse culture al giorno d’oggi. L’obiettivo sarebbe pertanto di indagare l’ambiguità del turpiloquio, un fenomeno non solamente linguistico, relegato all’ambito della comunicazione volgare stricto sensu, bensì connesso ad altri elementi della società, quali la sessualità, il maschilismo, l’omofobia, il razzismo, l’educazione.
Da una parte, le parolacce infastidiscono, irritano, indignano, scandalizzano chi le ascolta o chi le riceve; dall’altra fanno presa sulle persone, intrigano e affascinano il grande pubblico. Ci sarà un motivo se le prime parole che imparano gli stranieri sono proprio le parolacce? Probabilmente esse rappresentano il modo più semplice e immediato per entrare in relazione con gli altri, ovvero il livello più basso per comunicare efficacemente con degli sconosciuti ed essere compresi. Da questo punto di vista, il turpiloquio potrebbe rientrare di diritto come materia studiata dalla psicologia dei comportamenti o dalla filosofia del linguaggio.
E se addirittura le parolacce fossero una sorta di strategia di sopravvivenza escogitata dell’essere umano per la sua lotta evolutiva? In questo caso, il turpiloquio potrebbe persino essere trattato dalla biologia evoluzionista. Ma altri interrogativi sorgono esaminando il mondo delle parolacce, forse per troppo tempo trascurato dalle discipline accademiche: perché i bambini non devono dire le parolacce e gli adulti non devono insegnargliele? Evidentemente perché comunicare attraverso oscenità, blasfemie ed espressioni offensive è un segno di maleducazione che può comportare una cattiva reputazione, lasciando anche la possibilità di esclusione sociale all’interno delle varie comunità umane come famiglia, scuola e amici.
Passando oltre, quali sono le parolacce più diffuse? E sono le stesse in tutto il mondo? Per farci un’idea della questione, possiamo innanzitutto rispondere a queste domande compilando una casistica approssimativa delle parolacce più usate, ad esempio, in Italia. In primo luogo, ci accorgiamo che molte parolacce proferite dai nostri compatrioti fanno riferimento agli organi sessuali maschili e femminili o alla sessualità in generale. A tal proposito, come non citare il padre della psicoanalisi e, a maggior ragione, della sessualità come impulso intrinseco all’uomo, ossia Sigmund Freud? Sarebbe senz’altro interessante approfondire la ricerca, per indagare gli abissi del nostro inconscio, le tenebre dell’anima da cui nascono le nostre parolacce, connesse all’ancestrale tabù del sesso. In secondo luogo, notiamo che una bella fetta di parolacce riguardano l’elemento femminile, in particolare mamme, sorelle e il lavoro più antico del mondo. Questo dato, potrebbe essere il sintomo di una società visceralmente patriarcale, maschilista e misogina, allo stesso tempo morbosamente attratta e disgustata dalla donna. In terzo luogo, ci accorgiamo che innumerevoli parole brutte concernono l’omosessualità: altro indizio che ci mostra una società nel complesso omofoba e intollerante nei confronti del “diverso”. Infine, quasi tutte le parolacce hanno in qualche modo a che fare con la categoria della bassezza (lessico scatologico) e con la diversità. Riflettendo su ciò, possiamo concludere che la nostra è anche una società elitaria, rigidamente gerarchica, xenofoba ed esterofoba, nonché razzista e specista.
Un capitolo interessante sarebbe quello dedicato agli insulti a segni: quando un gestaccio vale più di tante parolacce.
Un altro capitolo potrebbe analizzare il ruolo della censura di Stato e Chiesa per contenere il turpiloquio: BEEP e asterischi. La condanna della bestemmia: simbolo di una società superstiziosa e timorosa delle punizioni divine, oppure oltraggio alla moralità, al buon costume, una ferita alla sensibilità civile? Il vaffa come trasgressione e rivoluzione o freccia del populismo (V-DAY di Beppe Grillo)?
Il turpiloquio nelle arti, come rottura di una tradizione consolidata, contro le convenzioni e le ipocrisie di un’epoca, attraverso opere letterarie, cinematografiche, musicali, teatrali. Il linguaggio dell’osceno nelle arti visive (pittura, scultura e installazioni contemporanee)[1].

Ma ciò che interessa a noi più da vicino è l’intreccio sviluppatosi tra turpiloquio e mondo contadino: una caso di deformazione linguistica? Infatti, osservando i termini che fanno riferimento alla sfera del turpiloquio, notiamo che gran parte di essi toccano anche l’attività agricola e, in generale, la massa, la plebe appartenente agli strati più bassi della scala sociale: volgare, volgarità, villano, villania, villanata, villaneggiare, triviale. Addirittura, uno dei sinonimi del lemma “cafone”, attributo che significa maleducato, di cattivo gusto, è, oltre a screanzato, insolente, anche “contadino”. Parimenti, la seconda accezione di “contadinesco”, oltre a “di contadino”, “da campagnolo” (es. furbizia), è lo spregiativo “grossolano”, “rozzo”, “scortese”. Quale tipo di educazione si sceglie come criterio di giudizio? Quale gusto, quale creanza?  A quanto pare, è s-cortese colui che sta fuori dalla corte, cioè al di là delle mura e dei modi cittadini: gli agri-coltori, appunto i “coltivatori del campo”.
Partiamo da lontano: il lemma “parolaccia”, secondo il Dizionario Italiano Sabatini - Coletti, significa propriamente “parola volgare, sconcia, offensiva”, e ha come sinonimo il termine “improprio”. Il vocabolario ci informa anche che “parolaccia” ha iniziato a diffondersi a partire dal XV secolo. Cosa vuol dire “volgare”? L’aggettivo, in una prima accezione, indica ciò che è “proprio del volgo, delle classi popolari” ma, esteso con valore limitativo o dispregiativo, esso significa “maleducato, di cattivo gusto, grossolano, rozzo”. Se qualcosa appartiene alle classi popolari deve essere necessariamente rozzo e grossolano? L’associazione popolo/maleducazione è legittima? Se sì, a quale tipo di educazione o di gusto si fa riferimento? Evidentemente all’educazione e ai gusti borghesi delle classi elevate, improntate sul bon ton, sul galateo, sul savoir-faire. Ma andiamo avanti.
Cercando il vocabolo “improperio”, sinonimo di parolaccia, troviamo come definizione quanto segue: “espressione offensiva, villana”. Ora, “villano” come aggettivo è “riferito a persona maleducata, incivile, sgarbata; tipico di persona rozza e incivile, privo di garbo e creanza”. In qualità di sostantivo, invece, la parola assume due significati: 1) anticamente, semplicemente “chi abita a lavora in campagna, contadino”; 2) esteso, persona sgarbata e maleducata; insolente, screanzato”. Per quale motivo un agricoltore è assimilato a un insolente? Certamente, bisogna ammettere che nel passato spesso le persone che vivevano in campagna, lontano dagli usi e costumi della città, assumevano comportamenti riprovevoli o, in ogni caso, bizzarri per un abitante urbano. Tuttavia, ancora una volta, l’associazione non è così immediata; anzi, essa appare alquanto arbitraria. Proseguendo nella ricerca, notiamo che “triviale”, la cui etimologia deriva da latino trivium, ovvero “strada”, significa, oltre a “ovvio, banale”, anche “scurrile, sguaiato, volgare, grossolano”. E’ chiaro l’accostamento (magari inconsapevole, magari arbitrario, magari attenente ai fatti): ciò che deriva dalla strada è volgare, ergo deprecabile.
In generale, come abbiamo cercato di dimostrare, pensiamo che molte definizioni del vocabolario non siano affatto neutrali o avalutative e che, pertanto, nascondino al loro interno già dei giudizi o, il più delle volte, dei pregiudizi i quali hanno inevitabilmente influenzato la mentalità delle persone. In altri termini, se il vocabolario è l’opera contenente i vocaboli di una lingua, con la definizione del loro significato e, soprattutto, se il processo educativo di alfabetizzazione passa per esso, allora la visione delle cose di un individuo colto e educato è modellato da certe definizioni parziali e faziose. Sicuramente, in ogni definizione sta un po’ di verità, ma col passare del tempo, il significato originale di un termine viene soppiantato da un'altra semantica. Non sappiamo se sono i dizionari che plasmano le idee di una cultura o, viceversa, se una cultura decide a tavolino le proprie parole. Crediamo, però, che la lingua sia il riflesso del pensiero e che, dunque, spesso una parola intesa in un certo modo invece che un altro, abbia delle importanti ripercussioni sul modo di pensare di un singolo, di un popolo, di un’epoca.

BIBLIOGRAFIA (INCOMPLETA) DI RIFERIMENTO
  • R. G. Capuano, Elogio del turpiloquio. Letteratura, politica e parolacce, Nuovi Equilibri, 2010
  • R. G. Capuano, Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia, Costa & Nolan, Milano, 2007
  •  P. Nobili (a cura di), Insulti e pregiudizi: discriminazione etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali, Aracne, Roma,2007
  • H. Frost - H. Goodwin, Il nuovo codice incivile. Diritti e doveri degli incazzati, Eco, 2006
  •  M. Zanni, Ditelo con gli insulti (e non accontentatevi di un semplice vaffanculo). Dizionario completo degli insulti italiano-inglese, Dalai Editore, 2001
  • N. Grassi, La Traduzione degli Insulti nel Doppiaggio di Film Americani, Tesi di Laurea, Bologna, Anno Accademico 2002-2003
  •  V. Tartamella, Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno, BUR, Milano, 2006
  • F. Rossi, «Parole oscene», Enciclopedia dell'italiano, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani
  •  Nora Galli de’ Paratesi, Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo, Mondadori, Milano, 1969.
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  • M. Dardano - C. Giovanardi - M. Palermo, Pragmatica dell’ingiuria nell’italiano antico, in “La linguistica pragmatica. Atti del XXIV congresso della Società di Linguistica Italiana (Milano, 4-6 settembre 1990)”, a cura di G. Gobber, Bulzoni, Roma, 1992, pp. 3-37
  • D. Jaccod, Volgarità in rete. Note sulla disfemia nell’italiano della Chat, «Rivista italiana di dialettologia» 29, 2005, pp. 169-180
  • W. Labov, Rules for ritual insults, in “Language in the inner city. Studies in the black English vernacular”, Blackwell, Oxford, 1972, pp. 297-353.
  • E. Pistolesi, Flame e coinvolgimento in IRC, in “Passioni, emozioni, affetti”, a cura di C. Bazzanella & P. Kobau, McGraw-Hill, Milano, 2002, pp. 261-277.
  •   http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/eloquio/ravesi.html
  •  http://www.parolacce.org/
  • http://www.treccani.it/enciclopedia/parole-oscene_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/  



[1] Molte delle questioni evidenziate precedentemente sono state brillantemente studiate in alcuni saggi che riportiamo alla fine di questo scritto.