mercoledì 30 marzo 2016

Inside Out: esplorando il cosmo umano





«Ma che cos’hai nella testa?». Quante volte ci hanno fatto questa domanda, specialmente durante la nostra giovinezza! Cosa c’è nella testa di una ragazzina di 11 anni: è ciò che cerca di mostrare questo assoluto capolavoro d’animazione della Pixar. “Inside out” è infatti in gran parte ambientato all’interno dell’apparato biopsichico della protagonista, di nome Riley, figlia unica di una coppia appartenente alla middle class statunitense. La struttura architettonica del film si regge, in particolare, su uno schema a specchio, potremmo dire, in cui le scene esterne (situazioni di vita comune) vengono osservate da un punto di vista decisamente inusuale, ossia da dentro la nostra macchina corporea e spirituale, appunto.
I creatori di questo cartone animato hanno davvero messo in moto tutta la loro bravura creativa, immaginando in qualche modo com’è fatto e come funziona il nostro io, sia superficiale che profondo. Il risultato è un manuale di psicanalisi a fumetti, pieno di forme e figure bizzarre e suggestive. Per esempio, la memoria a lungo termine è rappresentata come un enorme database, dove vengono collocati i ricordi che meritano di essere conservati nel tempo, paragonati a delle biglie colorate. Un variopinto archivio delle esperienze dell’esistenza, dunque, associate a precisi sentimenti.
I personaggi che animano il nostro ego, nel dettaglio, sono cinque: Gioia (simile a una stella lucente e dorata), Rabbia (mattone rosso fuoco), Disgusto (broccolo verde acidulo), Paura (nervo viola pallido) e Tristezza (lacrima blu e ingombrante), caratterizzati da gesti e atteggiamenti tipici delle emozioni che impersonano. Essi sono per così dire le maschere della commedia dell’arte che ogni giorno viene recitata sul palcoscenico della nostra soggettività. Il postmoderno, d’altronde, ci insegna che l’identità è nient’altro che una costruzione di stampo borghese: il soggetto propriamente non agisce bensì subisce flussi di forze che lo attraversano e lo plasmano continuamente. In questo modo, l’individualità tanto esaltata dalla modernità si scopre un reale subjectum: assoggettato da sovrastrutture e sottostrutture impersonali. Pertanto, la camicia di forza sociale brevettata dalla moralistica e spesso ipocrita etica della borghesia viene lacerata. A partire dai cosiddetti “maestri del sospetto”, secondo la felice espressione coniata da Paul Ricœur. Nietzsche, Marx e Freud svelano la falsa coscienza dell’epoca moderna, fiutando nell’aria quei “grandi racconti” ideologici denunciati poi ufficialmente da Jean-François Lyotard, il teorico del postmodernismo per eccellenza.
Proprio Sigmund Freud è uno degli autori chiamati in causa in “Inside Out”, cosparso di sottili riferimenti letterali e filosofici, che corrispondono a puntuali (anche se impliciti) riferimenti d’un certo spessore. Per il neurologo austriaco Ego, Es e Super-io costituiscono una sorta di iceberg interno alla nostra anima, tripartita in inconscio, coscienza e preconscio. Il subconscio è qui quasi un subcontinente che alberga la nostra selva interiore, in cui la cinepresa virtuale stana i forestieri che vi abitano. Tali temi sono stati trattati prolissamente dai filosofi esistenzialisti, per esempio, e qui diventano – direi magicamente – un caleidoscopio di immagini e metafore incantevoli.
Come sappiamo, Freud considerava i sogni la via maestra per decifrare il linguaggio ermetico del nostro Io più abissale. Nel lungometraggio analizzato l’universo dei sogni compare sotto forma di cinema onirico: una sala situata dietro ai nostri occhi, in cui il nostro cervello proietta sul maxischermo storie fantastiche o incubi terrificanti. Di magistrale inventiva sono anche le isole che compongono l’arcipelago della nostra personalità: famiglia, amicizia, il luna park dello svago ecc., collegati alla terraferma, vale a dire la torre di comando del sistema nervoso centrale. Il film riesce inoltre nella pressoché impossibile impresa di farci commuovere per una cosa inesistente. La scomparsa in dissolvenza dell’amico immaginario della protagonista è assolutamente struggente, per lo spettatore di ogni età.
Ancora, nell’opera suddetta vediamo in un certo senso che cosa succede dentro di noi quando eventi esterni interferiscono sulla nostra routine, scombussolando riti e ritmi della quotidianità. Altresì degno di nota è il disegno del regno dell’immaginazione, abitato da personaggi originali e rocamboleschi. Al contrario della dimensione monocromatica logico-razionale, in cui le cose assumono l’aspetto freddo di figure geometriche distorte. Come non pensare allora al celebre saggio del 1964 di Herbert Marcuse (uno degli esponenti più noti della Scuola di Francoforte, nonché ispiratore della contestazione giovanile del Sessantotto), L’uomo a una dimensione. Riduzionismo neopositivista, pensiero utilitaristico, funzionalista e strumentale; ossia il fondamento teorico che mostra come gli adulti omologati dalla globalizzazione dei consumi tendono a ragionare, cioè mediante categorie argomentative che livellano la complessità della realtà, sezionandola e analizzandola, anatomizzandola e semplificandola eccessivamente.
Esplorando lo spirito umano, quindi, attraverso un viaggio nei luoghi reconditi del carattere di una ragazzina, che porta in sé un pezzo di ciascuno di noi, per scoprire i meccanismi della sua e della nostra psiche. Alla ricerca della galassia contenuta nel nostro microcosmo interiore: un cabaret tragicomico, una carovana di tipi eccentrici che mettono in scena le turbolenze e le amenità della vita umana.
La morale di questa magnifica favola postmoderna è illuminante ed edificante, raccontando il Bildungsroman della graduale maturità del nostro passaggio terrestre. Alla fine del film, nel grande magazzino dei ricordi si forma infatti una biglia ibrida, poiché Gioia e Tristezza si fondono in maniera alchemica per dare vita a una sorta di tao in cui il blu e il giallo si abbracciano, generando una tonalità sfumata, che rompe quegli schemi consolidati che ripartiscono nettamente le emozioni secondo canoni precisi. I due stati d’animo, all’inizio mal conciliabili, scoprono insieme la ricchezza dell’alterità, fondamentale nella progressiva costruzione di strategie efficaci per proseguire l’eroico gioco della vita, dove le lacrime sono il frutto sia del pianto sia della risata, dove «gioia e dolore hanno il confine incerto», come canta Fabrizio De Andrè nella poetica ballata “Ave Maria”.
Concludendo, aspettiamo tutti impazienti “Inside Out 2”, per seguire l’arduo passaggio dalla giovinezza all’adolescenza di Riley, magari con l’arrivo di un fratellino o di una sorellina e, perché no, col ritorno di Bing Bong: l’indimenticabile amico immaginario dall’aspetto d’un gatto con proboscide, fatto di zucchero filato rosa che, quando è triste, piange caramelle.

lunedì 21 marzo 2016

The Wolf of Wall Street


Ecco la schizofrenia del virtuale mondo della finanza al tempo dell’ultracapitalismo. Il lungometraggio The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese è in ultima istanza un western ambientato agli esordi del WWW: da World Wide Web a World Wild West. Dove l’irrazionalità delle transizioni finanziarie iperliberiste è spiattellata sulle pupille dello spettatore a colpi di bolle speculative su valute e valori – i nuovi proiettili della Borsa; i nuovi bubboni della peste occidentale postmoderna. Dove la “growthmania” di un sistema economico non reale è la legge selvaggia del business-man/cow-boy che alleva mandrie di consumatori paranoici. Dove l’obiettivo tipicamente borghese di fare soldi è perseguito non tanto per il piacere della ricchezza in sé, quanto piuttosto per il gusto della competizione, del rischio, dell’azzardo ‒ il rodeo sul toro furioso simbolo di Wall Street come, in definitiva, uno sport estremo. Detto altrimenti, il film appare una specie di horror demenziale in cui emerge tutta la pazzia della logica del profitto a tutti i costi in un cocktail di alcol, droga e orge. 
La pellicola, del 2013, è tratta dall’omonima autobiografia di Jordan Belfort, spregiudicato agente di cambio newyorkese impersonato qui da Leo Di Caprio. Il protagonista è infatti un intermediario finanziario cocainomane e nevrotico, attivo nella Grande Mela a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90 del XX secolo. Egli incarna il perfetto yuppie avido, ambizioso ed edonista; il self made man che, come un Robinson Crusoe postmoderno, sbrana quotidianamente le proprie prede nella jungla d’asfalto e cemento della metropoli statunitense, affidandosi però ai confort dei paradisi fiscali.
In seguito a una crisi finanziaria, Belfort istituisce un’agenzia di brokeraggio che in breve tempo gli regala pecunia, femmine, amici/nemici e un vario listino di stupefacenti. Il suo ufficio si trasforma così in un parco divertimenti esuberante, un quotidiano carnevale dei folli governato da cinico isterismo; un bordello allestito per feste in maschera dove buffoni e altre oscene attrazioni circensi aumentano il livello di baldoria delirante. Ma il suo allucinante regno dorato cade a pezzi, rosicchiato a poco a poco da un’inchiesta dell’FBI. L’esito sconvolgente, tuttavia, è che una volta scontata la detenzione, Jordan Belfort intraprende una nuova spumeggiante carriera come apprezzato conferenziere, tenendo seminari sulle strategie di marketing.
Tra una puntata di “Chi vuol esser milionario?”, una partita a Monopoly e la decadenza famigliare descritta ne I Buddenbrook di Thomas Mann, l’opera cinematografica in questione svela perciò certe mostruose manie ossessive dei Paperon de’ Paperoni della modernità liquida, come direbbe il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Gli odierni ricercati dagli sceriffi dovrebbero dunque essere alcuni brokers e traders che giocano d’azzardo puntando e bluffando su titoli e azioni, in questo nuovo elogio della follia, con buona pace di Erasmo da Rotterdam. Non è infatti un azzardo dire che le sorti di gran parte del mondo si giocano oggigiorno a Wall Street, la piazza affari del pianeta dove si specula su materie prime come cereali o legumi, in duelli virtuali e a volte mortali per chi si trova disarmato dall’altra parte del globo. Nella nostra S.p.A. (società per azioni) postmoderna, tutto rischia effettivamente di diventare mercanzia da compravendita, di tendenza o fuori moda, cui attribuire un prezzo, inserire in un listino e mettere in vetrina.
Allora The Wolf of Wall Street, oltre a essere una commedia nera tremendamente drammatica, è pure un gangster movie contemporaneo che ritrae la malvivenza di delinquenti invisibili, assurti però al ruolo modelli di vita invidiati dalle masse. Il film, infine, riprende lucidamente l’esito surreale in cui il postmoderno consumistico-tecnocratico ci ha pilotati: una crescita produttiva esponenziale, un capitalismo al quadrato, quasi un videogioco totalmente staccato dal Pianeta Terra. La vita 2.0 è appunto una second life illimitata ma scontata, come un aperitivo all inclusive e all you can eat dove liquidi solo il bere. Poco male se il mondo gode solo a metà: tutto sommato, è un offerta imperdibile.


 

domenica 20 marzo 2016

Due sorelle, due padri, due sessi…

#cinema #società

Ha suscitato scalpore e curiosità, non solo nel mondo della settima arte, il fatto che adesso bisognerà parlare del celebre film The Matrix (quattro Oscar) come di un’opera delle sorelle Wachowski. Infatti, anche Andy (nato Andrew) ha rivelato la sua “evoluzione” come Lilly. In passato era stato il fratello maggiore, ossia Larry (nato Laurence) a trasformarsi in Lana. Ora i due formidabili cineasti di Chicago, divenuti famosi dopo aver diretto la geniale trilogia di Matrix, escono allo scoperto facendo pubblicamente outing e presentandosi come donne transgender. Cambiare corpo per trovare la propria identità: la saga degli ex fratelli Wachowski sembra già di per sé una intrigante sceneggiatura per un eccentrico movie hollywoodiano. 
D’altra parte, temi quali i concetti di rappresentazione e transizione, di universi paralleli, di reincarnazione e destino sono tutti ben presenti nelle loro pellicole (Cloud Atlas, Jupiter), a partire dal film d’esordio Bound (1996), reputato oramai un classico lesbo. Le due hanno anche girato una serie tv, dal titolo “Sense8”, basata sul fenomeno della telepatia. Ma c’è un’altra serie tv che sta riscuotendo successo in questo momento, vale a dire “Transparent”, trasmessa da Sky Atlantic, che tratta di un padre di famiglia in pensione il quale decide di palesarsi come trans.
La notizia che riguarda le Wachowski è commentata da un bell’articolo dello studioso Massimiliano Panarari su La Stampa. Panarari si sofferma sulla poetica dei loro film, incentrata sulla costante contaminazione di generi, sul duello tra reale e virtuale, com’è tipico dell’estetica del postmoderno. Sempre su La Stampa compare un’analisi di Gianni Riotta, che parte dalla nozione di metamorfosi in Ovidio: una tematica da sempre discussa e che oggi corrisponde alla nostra ultima frontiera. Nell’epoca della bioingegneria e della robotica, infatti, le questioni dell’ibridazione tra uomini e animali, OGM, chirurgia plastica, cyborg e intelligenze artificiali non sono più oggetto di fantascienza. Come non pensare, allora, pure al racconto di Kafka La metamorfosi, che inizia in questo modo: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo».
È inoltre uscito da poco al cinema The Danish Girl, film biografico che segue le due vite di Einar Wegener, pittore attivo nella Copenaghen degli anni ’20, prima uomo e poi donna col nome di Lili, il suo alter ego. Il personaggio del lungometraggio, diretto dallo stesso regista de Il discorso del re, è magistralmente interpretato da Eddie Redmayne, che aveva già prestato il suo corpo per impersonare il noto astrofisico inglese Stephen Hawking. Ancora, sta per essere proiettato in sala il terzo capitolo di Kung Fu Panda, dove si scopre finalmente il mistero delle sue origini. Il protagonista Po trova infatti il suo padre biologico, che gli farà da genitore insieme a quello adottivo, ossia l’oca Mister Pig.
Sono questi tutti segni di una società, la nostra, costantemente in evoluzione, specialmente in questi anni così mutevoli e precari, che si rincorrono frettolosamente l’uno dopo l’altro. L’argomento dei valori delle nuove famiglie, in particolare, sta interessando l’attuale dibattito politico nostrano, alimentato dalla proposta di legge Cirinnà su maternità surrogata e adozioni e, in aggiunta, fomentato dalla paternità di Nichi Vendola, ex governatore della Puglia. Riportiamo, infine, un estratto dell’intervista in cui Lilly (fu Andy) Wachowski racconta la sua “mutazione”: «Usiamo Maschio e Femmina come definizione dogmatiche, come se passassimo da un polo all’altro di un linguaggio binario, 0 e 1». Insomma, l’organo sessuale crea identità? Il nostro ego è determinato dalla natura o dalla cultura?