lunedì 21 marzo 2016

The Wolf of Wall Street


Ecco la schizofrenia del virtuale mondo della finanza al tempo dell’ultracapitalismo. Il lungometraggio The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese è in ultima istanza un western ambientato agli esordi del WWW: da World Wide Web a World Wild West. Dove l’irrazionalità delle transizioni finanziarie iperliberiste è spiattellata sulle pupille dello spettatore a colpi di bolle speculative su valute e valori – i nuovi proiettili della Borsa; i nuovi bubboni della peste occidentale postmoderna. Dove la “growthmania” di un sistema economico non reale è la legge selvaggia del business-man/cow-boy che alleva mandrie di consumatori paranoici. Dove l’obiettivo tipicamente borghese di fare soldi è perseguito non tanto per il piacere della ricchezza in sé, quanto piuttosto per il gusto della competizione, del rischio, dell’azzardo ‒ il rodeo sul toro furioso simbolo di Wall Street come, in definitiva, uno sport estremo. Detto altrimenti, il film appare una specie di horror demenziale in cui emerge tutta la pazzia della logica del profitto a tutti i costi in un cocktail di alcol, droga e orge. 
La pellicola, del 2013, è tratta dall’omonima autobiografia di Jordan Belfort, spregiudicato agente di cambio newyorkese impersonato qui da Leo Di Caprio. Il protagonista è infatti un intermediario finanziario cocainomane e nevrotico, attivo nella Grande Mela a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90 del XX secolo. Egli incarna il perfetto yuppie avido, ambizioso ed edonista; il self made man che, come un Robinson Crusoe postmoderno, sbrana quotidianamente le proprie prede nella jungla d’asfalto e cemento della metropoli statunitense, affidandosi però ai confort dei paradisi fiscali.
In seguito a una crisi finanziaria, Belfort istituisce un’agenzia di brokeraggio che in breve tempo gli regala pecunia, femmine, amici/nemici e un vario listino di stupefacenti. Il suo ufficio si trasforma così in un parco divertimenti esuberante, un quotidiano carnevale dei folli governato da cinico isterismo; un bordello allestito per feste in maschera dove buffoni e altre oscene attrazioni circensi aumentano il livello di baldoria delirante. Ma il suo allucinante regno dorato cade a pezzi, rosicchiato a poco a poco da un’inchiesta dell’FBI. L’esito sconvolgente, tuttavia, è che una volta scontata la detenzione, Jordan Belfort intraprende una nuova spumeggiante carriera come apprezzato conferenziere, tenendo seminari sulle strategie di marketing.
Tra una puntata di “Chi vuol esser milionario?”, una partita a Monopoly e la decadenza famigliare descritta ne I Buddenbrook di Thomas Mann, l’opera cinematografica in questione svela perciò certe mostruose manie ossessive dei Paperon de’ Paperoni della modernità liquida, come direbbe il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Gli odierni ricercati dagli sceriffi dovrebbero dunque essere alcuni brokers e traders che giocano d’azzardo puntando e bluffando su titoli e azioni, in questo nuovo elogio della follia, con buona pace di Erasmo da Rotterdam. Non è infatti un azzardo dire che le sorti di gran parte del mondo si giocano oggigiorno a Wall Street, la piazza affari del pianeta dove si specula su materie prime come cereali o legumi, in duelli virtuali e a volte mortali per chi si trova disarmato dall’altra parte del globo. Nella nostra S.p.A. (società per azioni) postmoderna, tutto rischia effettivamente di diventare mercanzia da compravendita, di tendenza o fuori moda, cui attribuire un prezzo, inserire in un listino e mettere in vetrina.
Allora The Wolf of Wall Street, oltre a essere una commedia nera tremendamente drammatica, è pure un gangster movie contemporaneo che ritrae la malvivenza di delinquenti invisibili, assurti però al ruolo modelli di vita invidiati dalle masse. Il film, infine, riprende lucidamente l’esito surreale in cui il postmoderno consumistico-tecnocratico ci ha pilotati: una crescita produttiva esponenziale, un capitalismo al quadrato, quasi un videogioco totalmente staccato dal Pianeta Terra. La vita 2.0 è appunto una second life illimitata ma scontata, come un aperitivo all inclusive e all you can eat dove liquidi solo il bere. Poco male se il mondo gode solo a metà: tutto sommato, è un offerta imperdibile.


 

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