mercoledì 27 aprile 2016

Dalle nuvole ai pozzi: verso un pensiero tellurico e una filosofia geocentrica, a partire dal terremoto dell'Aquila del 2009



Spesso una grande bellezza è insita nella fragilità. Cantava Fabrizio De André – maestro di Bellezza caduca – nella sua ballata “La Canzone di Marinella”: «E come tutte le più belle cose/vivesti solo un giorno come le rose». La delicatezza dei petali che regalano una fioritura fugace; un breve bacio d’un istante che pare eterno. Effimere (dal greco epì, emera: “di un solo giorno”) i colori potenti sulle graziose ali delle farfalle; la sublime decadenza di Venezia, appesa a un labile destino (innalzamento del livello del mare docet…). D’altronde, la vita stessa è un transito terrestre passeggero: facciamo però che non sia una camminata nichilistica tra le macerie della storia.
E proprio A spasso tra i rifiuti (Mimesis, 2014) s’intitola una precedente pubblicazione di Gianluca Cuozzo, docente di filosofia presso l'Università degli Studi di Torino. Perché la nostra società dell’usa-e-getta assomiglia purtroppo al “Paese delle ultime cose” del romanziere statunitense Paul Auster, dove «gli oggetti sono ancora per un attimo, ma subito dopo si trasformano in cumuli di spazzatura[1]». Come non pensare, allora, a Italo Calvino il quale, urbanista di castelli di carte, durante il suo tour delle città invisibili, fa tappa a Leonia. Cinta all’interno di mura costituite da rifiuti, ogni giorno questa polis riparte da zero: al mattino tutto è nuovo, mentre le robe vecchie vengono gettate via. La precarietà sembra in effetti il marchio di fabbrica di quest’epoca postmoderna, che si crede priva non solo di fisse fondamenta metafisiche e ideologiche (i “Grands Récits” della modernità, denunciati da Jean-François Lyotard), ma addirittura del basamento naturale su cui poggiamo i piedi. A tale proposito, in Regno senza grazia Cuozzo scrive:

Che questo pensiero profondo – quello del radicamento – ci sfugga oramai del tutto, è in qualche modo testimoniato dal nostro atteggiamento nei confronti della realtà straziante dei terremoti: unica presa d’atto, da parte dell’odierno uomo occidentale, della sua dipendenza da una Madre Terra che non è né sarà mai addomesticabile in tutto e per tutto.[2]

Eccoci qui, dunque, a indignarci ancora una volta di fronte alla gracilità delle italiche istituzioni politiche che perpetuano il declino di una città come l’Aquila. Perché siamo al punto in cui “fine della storia” non indica più primariamente la ricerca di uno scopo, di un proposito o di un’aspirazione nei riguardi del Tempo. Fine della storia oggi può letteralmente significare fine della corsa: rovina dell’ambiente, crollo del sistema Terra, game over della società umana, quand’anche punto omega del mondo. Un po’ come il terremoto che colpì Lisbona nel 1755, ma di proporzioni globali e all’ennesima potenza[3].
«I mortali devono anzitutto imparare ad abitare», tuonava lo “sciamano della parola” Martin Heidegger, giacché «solo se abbiamo la capacità di abitare possiamo costruire[4]». Invece, in questi tempi crepati, mentre assistiamo al parto di ecomostri venuti al mondo assieme a colate di cemento, cerchiamo per lo più un giaciglio dove poter dormire ed espletare le nostre esigenze fisiologiche – un tetto per non essere colpiti dai fulmini e dalle piogge acide. Così, se i rendering virtuali disegnano progetti che poi, nella realtà, non rispettano i protocolli antisismici, dobbiamo poi dire con Papa Francesco: «Se l’architettura riflette lo spirito di un’epoca, le megastrutture e le case in serie esprimono lo spirito della tecnica globalizzata, in cui la permanente novità dei prodotti si unisce a una pesante noia[5]».
Prendere residenza in una città vuol dire perciò soprattutto sentirsi parte di una comunità. In generale, l’ecologia insegna appunto come il singolo individuo sia parte di un tutto organico che si sviluppa grazie a una fitta rete di relazioni biologiche; una trama intessuta da fibre di biodiversità che si crea tra animali, vegetali e l’intero ambiente circostante. Un milieu brulicante di esseri viventi e inanimati che fanno respirare il pianeta grazie all’armonia sinfonica e concertata degli elementi che rendono possibile la vita, e l’evoluzione delle specie all’interno della biosfera, nostra casa resa traballante anche per colpa dell’abusivismo edilizio umano. Con un’immagine possiamo dire che al posto della città di Prometeo è quindi giunto il momento di insediare la città di Anfione, il quale costruì le mura di Tebe con il suono magico della sua lira: secondo il mito, le pietre si posavano simmetricamente grazie al potere ordinatore della musica[6].
Tuttavia, ancora le trivellatrici alla ricerca di petrolio (oggetto del recente dibattito referendario) è come se compissero attraverso perforazioni profonde un quotidiano viaggio al centro della Terra. In questo senso l’attività dell’uomo è un alternarsi di cave: tra miniere e discariche a cielo aperto l’umanità sta scavando la propria fossa comune; anche se assume le sembianze di un accogliente sarcofago a led (Las Vegas, Dubai, Disneyland…), essa resta irrimediabilmente una tomba. Lo skyline del pianeta assomiglia pertanto a certi grafici economici: un elettrocardiogramma patologico, un sismogramma impazzito che traccia linee irregolari sulla superficie di una litosfera eccessivamente sotto sforzo.
Fin dai suoi esordi, troppo spesso la filosofia si è librata in volo verso iperurani favolosi per contemplare il cielo delle idee, perdendo di vista i tanti pozzi disseminati su questo pianeta che, come trappole, incrociano il cammino dell’uomo. Il riferimento, com’è noto, riguarda l’aneddoto narrato da Platone secondo cui Talete, reputato da Aristotele il primo filosofo occidentale, occupato ad ammirare gli astri della volta celeste, incappa in un pozzo tra gli sberleffi dei passanti[7]. Infatti, come ironizzava causticamente il commediografo Aristofane, il filosofo vive spesso “tra le nuvole”: ma cosa succede se, guardando i suoi piedi, non trova più il mondo? Di conseguenza, sia accolta la provocazione: evviva la rivoluzione tolemaica! Abbiamo di nuovo bisogno di un modello geocentrico che ponga il mondo sublunare in mezzo al nostro paradigma etico-culturale, di modo che l’uomo non si senta più senza fissa dimora in un angolo buio del multiverso delle idee. 
Dall’iperuranio all’ipogeo: serve una ecosofia, nel senso di cultura dell’abitare e saggezza della “casa” comune, dove ri-prendere residenza per ottenere un autentico “permesso di soggiorno” (terrestre), potremmo dire, dopo aver svolto responsabilmente le nostre “faccende domestiche”, alla stregua di rispettosi “casalinghi” planetari. Urge una filosofia tellurica: un pensiero davvero umile, che sorga dal suolo – materia prima (come l’animale humanum, peraltro: “uomo” proviene dal latino humus che significa terra; Adamo, il primo uomo, indica “argilla rossa” in ebraico). Occorre infine una cura per guarire dalle ferite del nostro disordine esteriore e interiore, nonché un mastice per riassestare le faglie sismiche del quarantotto mondiale.
E vorrei concludere con i primi versi della canzone scritta da Mauro Pagani (tra l’altro, eclettico musicista che con la PMF accompagnò la voce di De André) e, subito dopo il terremoto che ebbe come epicentro la conca aquilana, riadatta insieme ai più celebri nomi del panorama musicale italiano, per raccogliere fondi con la campagna “Salviamo l’arte in Abruzzo”: «Tra le nuvole e i sassi passano i sogni di tutti, /passa il sole ogni giorno senza mai tardare. /Dove sarò domani?/ Dove sarò?[8]».

 Fabio Dellavalle


[1] Cfr. G. CUOZZO, “Città spazzatura e utopia del residuale: il ‘paese delle ultime cose’ di Paul Auster”, in AAVV, Quaderni Augusto Del Noce, Marco, Lungro di Cosenza, 2010, pp. 401-420.
[2] G. CUOZZO, Regno senza grazia, Oikos e natura nell’era della tecnica, Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 20-21.
[3] Il giorno di Ognissanti del 1975 un violento movimento tettonico colpì la capitale del Portogallo. L’evento ebbe notevoli ripercussioni anche a livello filosofico e culturale in Europa. Nel dettaglio, il cataclisma scosse la rosea credenza nel “migliore dei mondi possibili” espresso, per esempio, dalla teodicea di Leibniz, inaugurando la cosiddetta “filosofia della catastrofe”. Infatti, già l’anno successivo Kant fece pubblicare il suo primo scritto sui terremoti, mentre Voltaire redasse il Poema sul disastro di Lisbona. In polemica con Rousseau, lo stesso autore scrisse poi Candido, o l’ottimismo, scagliandosi contro la fede ingenua nella Provvidenza divina.
[4] M. HEIDEGGER, “Costruire Abitare Pensare”, in Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991, pp.107-108.
[5] PAPA FRANCESCO, Laudato si’, Enciclica sulla cura della casa comune, San Paolo, Milano, 2015, p. 113.
[6] Cfr. R. ASSUNTO, La città di Anfione e la città di Prometeo, Jaca Book, 1997; L. VALLE (a cura di), Ri-abitare la Terra, Ibis, Como-Pavia, 2005, p. 27.
[7] Cfr. H. BLUMENBERG, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, trad. it. di B. Argenton, Il mulino, Bologna, 1988.
[8]ARTISTI UNITI PER L’ABRUZZO, Domani 21/04.2009, Sugarmusic, Milano, 2009.


mercoledì 20 aprile 2016

Salvador

[Un tema dalla terza media: sviluppa liberamente il seguente incipit]

Seduto sul muricciolo, con la schiena rivolta verso il vento, un uomo mangiava un grosso pezzo di pane, affettandoci sopra una striscia di carne affumicata... Aveva accanto una bottiglia di vino, a cui ricorreva spesso, ma per brevi sorsi, quasi non volesse che quel prezioso succo d’uva finisse, forse la sua unica ragione di vita. Dopo l’ultimo sorso si accese una sigaretta, afferrò la sua canna da pesca la sua chitarra e si alzò in piedi. Fece dei piccoli passi e cominciò a camminare verso chissà che cosa, verso chissà quale meta e, piano piano, la sua sagoma scura sparì davanti al sole.

Siamo da qualche parte in Brasile, dove musicisti e artisti di strada si guadagnano da vivere con le loro originali esibizioni. Tra questi ‘sbandati’, come il resto della società civile è solito chiamarli, c’è anche lui, Salvador, un uomo né giovane né vecchio, ma tale da poter essere definito saggio. Ha i capelli argento, raccolti in una coda. Una leggera barba gli ricopre il viso stanco, ma felice, da cui brillano due occhietti che hanno visto tanto- città e paesi diversi, persone e culture altrettanto diverse. Questo è Salvador, un adulto che non ha conosciuto l’infanzia - distrutta da un padre alcolizzato e da una madre costretta a vendersi in strada- e che perciò vive avvolto da un’ingenua aurea fanciullesca. Tuttavia Salvador non parla delle sue sciagure, forse non ha mai confessato direttamente a nessuno il suo passato triste e violento. Salvador preferisce cantare le proprie storie, inventando vicende e personaggi che raccontano anche un po’ della sua girovaga esistenza. Con la chitarra riesce a trasmettere profonde e sincere emozioni, narrando avventure immaginarie- che, in fondo, così tanto immaginarie non sono. In questo modo ipnotizza grandi e piccini, che lo ripagano con qualche misera monetina- che poi tanto misera non è…

Una fresca sera di settembre Salvador stava suonando in una piazzola, quando ad un tratto due signori eleganti con in mano una valigetta si intromisero nella folla e interruppero bruscamente Salvador.
“Se vuoi cambiare vita - intonarono - seguici dietro quell’angolo. Siamo rappresentanti della nota casa discografica “SoUnD” di San Francisco; andiamo in giro per le americhe  a scoprire nuovi talenti”. Intanto uno dei due mise una mano in tasca e fece spuntare due bei bigliettoni verdi. Salvador, che fino a quel punto li aveva ignorati, alzò di scatto le pupille, abbagliate da quei soldi.
“Noi ti faremo scalare tutte le classifiche del mondo, fino a farti guadagnare di quel tanto da comprarti una macchina al mese!”- proseguì sempre il solito manager. “Ti aspettiamo in macchina; pensaci e, quando avrai deciso, raggiungici” – sentenziò quello che non aveva ancora mai aperto bocca. Salvador si bloccò, con le mani congelate sul manico dello strumento, con lo sguardo fisso nel vuoto e una ciocca di capelli che ricadeva sulla fronte ampia e segnata dal tempo. Probabilmente nella sua testa passavano ininterrottamente – come una sequenza cinematografica – immagini della sua infanzia, della sua condizione attuale e, attraverso una sorta di presagio, anche il suo futuro. Rimase immobile per alcuni minuti, mentre intorno a lui la gente lentamente si allontanava, perdendosi tra le strade afose della città. Poi si alzò, prese la canna da pesca con la mano destra, la chitarra con la sinistra. Guardò in alto nel cielo, quasi per dire a sua madre: “Scusa…”. Fece dei piccoli passi fino a raggiungere l’angolo indicato dai due colletti bianchi. Sulla sinistra si apriva un piccolo sentiero impolverato che conduceva chissà dove, sulla destra ecco parcheggiata la macchina, lunghissima e lucidissima. Si parò davanti al musone nero e aggressivo dell’auto, che pareva ringhiasse, e fece un cenno ai due, quasi per dire: “Grazie lo stesso…”. Si voltò a imboccò il sentiero, proseguendo la sua vita, mentre tutto il mondo intorno a lui correva, pieno di luci e di rumori dissonati, quando la sua sagoma nera sparì davanti al sole. 

La bici di mio zio




Mio zio mi ha dato la sua vecchia mountain bike, dato il suo mancato di utilizzo. Si tratta di una bicicletta bianca, con il telaio ornato di striature violacee con 7 cambi e una serie graduata di attriti. L’ho appesa a una parete del garage, sopra due staffe, dove è stata per tutto l’inverno. A primavera l’ho tirata giù: ho gonfiato le gomme e ho deciso di partire per un giretto attraverso i sentieri boschivi nei dintorni.

Una prima salita mi fa imprecare ognuno dei raggi delle ruote, mentre smanetto sui rapporti per trovare una marcia leggera adatta all’arrampicata, finché la catena si inceppa, bloccando i pedali e facendomi così perdere l’equilibro. Fortunatamente con un goffo balzo riesco a togliermi dalla sella, evitando in questo modo il capitombolo. Al che rimetto a posto la catena e già che ci sono alzo un poco la sella perché sembro un clown su quelle bici piccole del circo, con le ginocchia in prossimità delle spalle. Poi riparto.

L’esperienza insegna che dopo una salita segue una discesa: in quel momento l’aria mi arriva in faccia e pare davvero di volare, tanto che per un attimo mi viene in mente di chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare per godere a pieno il momento. Un clacson di automobile mi fa repentinamente cambiare idea, e capire che sto leggermente invadendo la corsia di una strada provinciale a due sensi di marcia ma priva della linea di mezzeria. Penso a tutte le volte che guidando la macchina mi sono imbattuto anche io in scene del genere ma a rapporti invertiti, maledicendo il ciclista, o più spesso il gruppetto di ciclisti, che se ne sta come un re beato al centro della strada ignorando completamente il fatto che dietro di lui c’è una vettura nel cui abitacolo risiede un guidatore magari di fretta che, sorpassandolo, esprime a gesti o a parole o solo mentalmente il disprezzo generalizzato verso tutta la categoria.

Finito l’asfalto, mi inoltro in un sentiero sterrato, che fa sobbalzare le mie natiche poco allenate, e le mie braccia come se stessi impugnando un martello pneumatico. Intanto spero che i pneumatici non esplodano di colpo, dato che sono alquanto datati. In seguito la luce che abbaglia i miei occhi si attenua; il fogliame degli alberi in fiore filtra i raggi del sole, dando tregua alle pupille che, però, devono già subito concentrarsi per trovare il passaggio migliore onde evitare alcune pozzanghere. Riesco a schivare la prima defilandomi sulla destra; torno poi di nuovo al centro della carreggiata dove scorgo un varco aperto da un altro ciclista; alla terza pozza, non vedendo vie d’uscita percorribili, accelero la pedalata con l’intenzione di oltrepassare il pantano a mo’ di motoscafo. Il risultato tuttavia è che, dopo un paio di metri di schizzi, la ruota davanti si impaluda. Allora sono costretto a scendere e guadare la melma spingendo il velocipede a mano, mentre scopro di essere interamente punteggiato di macchioline beige, credo anche in faccia.

Il percorso prosegue sul terreno ghiaioso o fangoso, a tratti concavo e altre convesso, in una corsa davvero divertente su piccole montagne russe naturali, cercando di schivare i rovi che fanno capolino lungo la via. Il fatto di non andare particolarmente veloce mi consente di osservare gli splendidi sfondi ai miei lati: querce, castagni, gaggìe si alternano campi di erbe selvatiche o coltivate; e a qualche sacco della spazzatura o rifiuti di plastica. L’andatura, inoltre, mi permette di recuperare un concetto, diciamo, più naturale del tempo: col variare della velocità capisco davvero cosa significhi percorrere una salita e una discesa; una cosa non più così immediata procedendo con un motore sotto il sedere. Pedalare insegna che una discesa costa fatica. Andando in bicicletta ho così imparato quanto bisogna sudare prima di godere di libertà e brezza fresca. La forza di gravità ha i suoi privilegi ma anche i suoi inconvenienti. Il contesto silvestre lascia dunque spazio a un piccolo agglomerato di abitazioni, dove decido di sostare un po’ per riprendere fiato, bere dalla borraccia un miscuglio di acqua e sali minerali e far riposare le mie chiappe doloranti. Capisco quindi l’assoluta necessità di procurami dei pantaloncini imbottiti, o magari direttamente un cuscino a forma di sellino.

Finita la pausa mi rimetto in marcia, con i polpacci sempre più duri e gli occhi che bruciano a causa del sudore che cola dalla fronte. Ogni tanto, quando la sofferenza è al limite della sopportazione, sollevo il deretano provando una sensazione di gioia immensa, e quasi mi commuovo. Nel viaggio di ritorno incontro qualche altro amante delle due ruote, a cui un codice non scritto impone l’obbligo di porre un saluto, come intendo presto. Verso la fine, altri due corridori mi superano con estrema facilità, prestando fede al codice non scritto (e probabilmente aggiungendovi anche un pizzico di sarcasmo).

Ritorno a casa stanco e sporco; appena metto nuovamente piede sulla terraferma, manca poco che casco al suolo, poiché le gambe tremano e paiono non reggermi. Sono una specie di robot sudicio con il culo indolenzito che cammina a scatti. Do una pulita alla bicicletta e alle mie scarpe totalmente ricoperte di fango marrone. Ma sono veramente contento dell’esperienza, che intendo ripetere a breve. E ragiono sul fatto andare in biciletta non è poi così diverso dallo scrivere. Macinare chilometri e aggrumare parole: partire, avanzare lungo una strada dove si incontrano sassi e lettere, arrivare alla fine del tragitto. E’ una questione di ritmo – bisogna prendere il tempo giusto, trovare il giusto rapporto. Capita di bloccarsi e bisogna pertanto fermarsi per risistemare la catena e ripartire. Si sale e si scende, si va in piano, con fatica oppure lasciandosi trasportare da un flusso mentre si vorrebbe chiudere gli occhi e immergersi in un universo di piante e aria fresca. Ma un clacson o un sacchetto della spazzatura ci riportano bruscamente alla realtà.

martedì 5 aprile 2016

La robotica commedia



#tecnologia #letteratura


Non sappiamo ancora se le macchine possano pensare. Ma adesso sappiamo che possono scrivere. E scrivere piuttosto bene, tanto da essere scelte tra i finalisti di un concorso letterario (per esseri umani). Non è l’inizio di un film di fantascienza, bensì una recente notizia di cronaca venuta dal Giappone. Un robot ha infatti scritto un romanzo, elaborando i codici che gli hanno fornito i suoi sviluppatori. Nel dettaglio, il cyborg letterato è stato in grado di intrecciare tra loro parole e frasi di un testo già esistente, componendo alla fine una trama (a quanto pare avvincente) in cui i personaggi agiscono e dialogano in modo abbastanza originale.
Chissà se il romanziere computerizzato, il cui racconto è arrivato ovviamente anonimo ai giudici del concorso, riuscirà a vincere il premio. Nel frattempo, si dovrà forse anche parlare di creatività artificiale, oltre che di intelligenza artificiale. Certo, dietro all’estro dell’androide c’è pur sempre un team di scienziati, i quali hanno ammesso che circa l’80% dell’opera dipende dalle loro direttive. Perciò, dato che la creatività artistica implica appunto una creazione dal nulla (produrre qualcosa di nuovo che prima non c’era), gli scrittori in carne e ossa possono stare tranquilli. Almeno per un po’. 
Il “manoscritto” in questione pare comunque ben strutturato a livello narrativo, anche se probabilmente scritto con una tecnica, diciamo, fredda e meccanica. Già in passato un robot aveva sconfitto un uomo al gioco di degli scacchi. Ora, dopo la macchina da scrivere, ecco la macchina che scrive. Siamo sempre più vicini, insomma, al giorno in cui una mente elettronica riuscirà a superare il noto test di Turing, l’esame per determinare se un computer può pensare, ideato nel 1950 dal britannico Alan Turing, uno dei padri dell’informatica, a cui sono dedicati due film di qualche anno fa: Enigma (2011) e The Imitation Game (2014).
Sembra allora proprio il caso di riformulare il titolo del famoso romanzo fantascientifico di Philip Dick del 1968, Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (meglio conosciuto come Blade Runner, dalla versione cinematografica di Ridley Scott): “Ma gli androidi sono ispirati de muse elettriche?”