mercoledì 20 luglio 2016

“Cloud Atlas”: Tempo, Verità, Libertà



Ha suscitato scalpore e curiosità – non solo nel mondo della settima arte – la recente notizia della “metamorfosi” delle sorelle Wachowski. Infatti, ora anche Andy (nato Andrew) ha rivelato la sua “evoluzione” come Lilly. In passato era stato il fratello maggiore, ossia Larry (nato Laurence) a trasformarsi in Lana. I due geniali cineasti di Chicago, divenuti famosi dopo aver diretto la spettacolare trilogia di The Matrix, sono perciò usciti allo scoperto facendo pubblicamente outing e palesandosi come donne transgender. Cambiare corpo per trovare la propria identità: la saga degli ex fratelli Wachowski sembra già di per sé una intrigante sceneggiatura per un eccentrico movie hollywoodiano.

D’altra parte, temi quali i concetti di reincarnazione e transfer spirituale, rappresentazione e transizione, universi paralleli e destino sono tutti ben presenti nelle loro pellicole. La poetica dei loro film, effettivamente, è incentrata sulla costante contaminazione di generi, sul duello tra reale e virtuale, com’è tipico dell’estetica del postmoderno o delle filosofie orientali. D’altronde, nell’epoca della bioingegneria e della robotica, le questioni dell’ibridazione tra uomini e animali, OGM, chirurgia plastica, cyborg e intelligenze artificiali non sono più oggetto di fantascienza. Inoltre, l’ideale buddista del bodhisattva (“essere un’illuminazione” in sanscrito) – che prescrive la regola aurea secondo cui tutte le cose esistenti nell’universo sono unite da un rapporto d’interrelazione e d’interdipendenza, similmente alla metafora della rete di Indra, o al Tao come unione di yin e yang – non sembra molto lontano dalla lezione dell’ecologia, per cui ogni organismo è intrecciato nel tessuto ecosistemico del rispettivo ecotopo. E che cos’è poi il karma, se non l’accento sulle conseguenze morali delle scelte passate che di fatto ereditiamo e che condizionano le (ri)nascite future?

Ecco il nucleo concettuale e narrativo su cui è costruito Cloud Atlas, film del 2012 scritto e diretto dai/dalle fratelli/sorelle Wachowski, insieme a Tom Tykwer. Il lungometraggio, tratto dal romanzo L'atlante delle nuvole di David Mitchell, intreccia infatti sei storie ambientate in luoghi e tempi diversi, legando personaggi e situazioni tramite riferimenti e citazioni interne (ad esempio, la voglia a forma di stella cometa che contrassegna il corpo del protagonista messianico intenzionato a cambiare il mondo in cui vive). Nel dettaglio, gli episodi narrati sono: “Il Viaggio nel Pacifico di Adam Ewing” (metà ‘800); “Lettere da Zedelghem” (anni ’30 del XX secolo); “Mezze vite – Il primo caso di Luisa Rey” (anni ‘70); “La tremenda ordalia di Timothy Cavendish” (epoca contemporanea); “Il verbo di Sonmi~451” (futuro distopico); “Sloosha Crossing e tutto il resto” (futuro post apocalittico). Cloud Atlas è, da questo punto di vista, un’opera ricchissima di contenuto, confezionata in una forma maniacale e visionaria. Pellicola fantasmagorica, colma di citazioni colte (due su tutte Solzenicyn e Soylent Green), che si colloca all’interno del genere distopico, andando a trattare in maniera iperbolica la critica all’«ordine naturale prestabilito» dello status quo e, di rimando, la possibilità di emancipazione da esso. Film lungo e largo nello spazio e nel tempo, che incastona sei storie particolari in un’unica grande Storia.


A ben vedere, tutti i diversi argomenti che si dipanano nelle varie vicende (rispettivamente schiavismo, omofobia, femminismo, senilità, consumismo, sopravvivenza) rientrano nella macro-tematica della Libertà, presupposto fondamentale per il raggiungimento della Verità, occultata e maneggiata dal potere di turno. Una storia diacronica dell’umanità, perciò, che affronta il Tempo con un’apertura di prospettive mostruosa: dal tempo lineare e vettoriale al ciclico eterno ritorno dell’eguale. Sei racconti accomunati da un medesimo schema narrativo, incastrati – come preziose pepite – l’una con l’altra grazie, in primo luogo, ad elementi che fungono da “staffetta” tra le sequenze (ad esempio, la corrispondenza epistolare dei due innamorati, la statua della divinità nel tempio/cimitero, il diario di bordo messo sotto la gamba di un tavolo!) e, in secondo luogo, alla presenza dello stesso cast, truccato e trasformato di volta in volta con risultati stranianti. La Libertà vista in sei differenti contesti storici, dunque, e attraverso altrettanti registri narrativi: dalla vicissitudine comica, quasi picaresca del vecchio editore che organizza la fuga da una casa di cura per anziani, fino alla tragica epopea della donna «artificio» nella Nuova Seul.

Ogni vicenda presenta una situazione di segregazione, da quella letterale dello schiavo ai tempi della lotta a favore dell’abolizionismo, a quella assai meno appariscente della prigionia dei consumi al tempo del capitalismo sfrenato. All’interno di queste galere dell’anima umana si nascondono degli eroi, coloro che in qualche modo sanno oltrepassare la situazione alienante del presente. Sono i redentori del genere umano, quello strato di reietti e perseguitati di ogni razza e colore, direbbe Herbert Marcuse, ancora in grado di superare le barriere mentali della propria epoca, fatte di pregiudizi e conformismo conservatrice, che celano «il vero vero». Costoro rappresentano i reali soggetti rivoluzionari capaci di spezzare il circolo vizioso che imprigiona il presente, caratterizzato dalle contraddizioni che il Potere ogni volta produce e mantiene nell’ombra.

Il Male si incarna qui nelle forme politiche autoritarie della storia: i proprietari terrieri e schiavisti del ‘600, il nazismo e le superstizioni razziali tra le due Guerre Mondiali, i detentori delle risorse energetiche come petrolio ed energia atomica negli anni ’70, i fedeli del dio denaro del XXI secolo, le holding multinazionali di un futuro prossimo alle porte e, infine, i cannibali di un’era preistorica che rappresenta la fine o l’innesco di una fase storica. Proprio questa età del mondo è il perno su cui ruota il lungometraggio (una sorta di collage tra 6 cortometraggi), dal momento che esso parte e termina con il faccione tatuato di Tom Hanks che si staglia davanti al cielo stellato di una galassia lontana, ascoltando «gli antenati cianciare». Passato, presente e futuro si amalgamano in una specie di élan vital in cui «ogni cattiveria e ogni gentilezza si ripercuotono sul nostro futuro» (ad sensum).

Siamo nel “106 dopo la Caduta” (catastrofe ecologica, bellica o nucleare) e gli uomini sono divisi in tre classi: i “Prescenti” (custodi della scienza e della tecnologia), dei selvaggi allevatori di pecore e i cannibali. Questi ultimi sono, in qualche modo, la metafora vivente del Male di ogni periodo storico, in quanto si cibano dei propri simili: del loro corpo o anche della loro essenza antropologica. I pecorari, invece, parlano una lingua assai povera e sconnessa: altro cliché del genere distopico. L’esistenza è percorsa quindi da una crudele lotta per la sopravvivenza fisica e solo un alieno venuto da lontano, in grado di pensare «altro», può essere quello spiraglio di salvezza che, squarciando il Velo di Maya e uscendo dalla Caverna platonica, scopre la Verità e conduce pertanto alla Libertà.

Ultima annotazione: Cloud Atlas è, nel film, il titolo dell’opera musicale composta dal giovane e abilissimo pianista gay, morto suicida nel film. Essa simboleggia in un certo senso la sinfonia della Bellezza che risuona in eterno, abbracciando e confortando le anime emarginate dalla società, i diversi: ancore di salvezza che sono ancora in grado di abbandonare il peso delle convenzioni e delle regole ingiuste, per far volare in cielo le proprio idee fino a contemplare, libere e leggere, la Luce della Verità. Atlante delle nubi, geografia della galassia umana.

venerdì 15 luglio 2016

Cuore di cuoio



I campionati europei di soccer appena trascorsi ci hanno lasciato impresse negli occhi tre immagini. La prima è drammatica nel senso di catartica, come i grandi classici dell’epoca aurea del teatro greco. Si tratta del coro vichingo con cui la compagine islandese era solita congedarsi dai suoi tifosi, ringraziandoli per il sostegno, al termine di ogni match. Il rito norreno, cosiddetto “Geyser Sound”, è stato definito l’haka scandinava: una danza vulcanica e geotermica che ha sciolto le pupille ghiacciate di noi supporters mediterranei. Esso ritrae la cerimonia liturgica con cui l’intero popolo insulare si è unito intorno al sogno da favola della sua squadra cenerentola, sebbene barbuta e tatuata, vestita di bianco-rosso-blu. Gli stessi colori ritroviamo nella seconda immagine: il fotogramma ripreso in autostrada con la videocamera di un cellulare, che riprende il bus scoperto, sulla cui fiancata campeggia la réclame “Champions d’Europe”, già pronto per il tour di Parigi dell’equipe francese. Questa è comica in quando rappresentazione di una beffarda ironia del destino; quasi una punizione degli dei del tempio calcistico per gli eroi dell’arena verde, che hanno peccato di hybris (o grandeur che dir si voglia). La raffigurazione finale è invece quella del bambino portoghese che conforta il fan dei Bleus singhiozzante, dopo la sconfitta contro CR7 & Co. Essa assurge a simbolo dell’umana commedia: dolceamara come le lacrime di delusione che si abbracciano a quelle di chi si commuove di gioia, provando pietà per il nemico vinto. 




giovedì 14 luglio 2016

Giovani radici crescono sotto la Mole...

"This is of course the green onions tune". Così cantavano nel cult-movie del 1980 Dan Aykroyd e John Belushi, ossia i mitici Blues Brothers. Della band più famosa del cinema facevano parte anche due componenti dei Booker T. & the M.G.’s, gruppo musicale soul che conobbe il successo negli Usa grazie al singolo che apriva l'omonimo album del 1962, chiamato Green Onions.
Il titolo del brano è stato scelto recentemente da un gruppo di giovani torinesi per denominare il loro blog. Green Onions è infatti un gruppo di studenti provenienti da diverse facoltà dell’Università degli Studi e del Politecnico di Torino, nato nel marzo 2015, "che ha l’obiettivo di divulgare informazioni su temi ambientali, ecologia ed ecocritica, spendendo le conoscenze acquisite durante gli studi universitari e approfondendole". La scelta del nome non è causale: “Cipolle Verdi” rappresenta il collettivo in tutto e per tutto: verde – colore che solitamente richiama l’ambiente – e stratificato, come gli interessi dei suoi membri.
La piattaforma comunicativa delle "Cipolle Verdi" è un blog: http://greenonions.altervista.org/. Qui si possono trovare interessanti news provenienti dal Web, oltre a iniziative di vario genere ed eventi "sostenibili" di Torino e dintorni. Il sito Internet è agevolmente suddiviso in categorie, che ospitano articoli sugli argomenti più disparati: Ambiente, Arte, Film e Cinema, Libri e Letteratura, Musica. I Green Onions Torino sono anche presenti sui social network di Facebook e Twitter, dove pubblicano regolarmente contenuti inerenti la salvaguardia della natura. 
Tra le lodevoli attività del gruppo (come aperitivi e incontri "ecologici") si segnala in particolare la loro adesione alla campagna europea di pulizia ambientale dettaLet’s clean up Europe!”. In occasione dell'evento i Green Onions si sono dati appuntamento ai Giardini Reali della capitale sabauda sabato 7 maggio 2016, dove hanno lottato contro il littering e l’abbandono di rifiuti, pulendo parte dei parco. L'intento era appunto quello di partecipare attivamente sul territorio, affiancando gli incontri informativi ad azioni concrete. La scelta del luogo da ripulire è stata simbolica: i Giardini Reali rappresentano la sede dei primi incontri dei Green Onions. Circa un anno dopo la fondazione, essi sono perciò tornati con guanti e sacchetti, pronti a portare via l'immondizia "dimenticata" sull'erba delle aiuole. La conclusione che si è tratta dall'esperienza è stata che il fenomeno del littering – ovvero la tendenza di gettare o abbandonare i rifiuti con noncuranza nelle aree pubbliche, invece che negli appositi bidoni o cestini della spazzatura – è purtroppo una brutta abitudine ancora troppo diffusa.
Sintonizziamoci dunque sulle buone vibrazioni emanate dalle Green Onions!
I Green Onions in azione ai Giardini Reali per il LCUE 2016


lunedì 11 luglio 2016

Verdena smeraldo



Vivono nel nostro stesso mondo, mangiano quello che mangiamo noi, parlano come noi nella vita di tutti i giorni. Ma se uno si mette ad ascoltare le loro canzoni finisce per non un capirci un’acca, avendo quasi l’impressione di avere a che fare con degli alieni particolarmente abili come musicisti che, avendo trovato una registrazione in lingua italiana, hanno finito col combinarne a random i vari sintagmi. Le parole che noi tutti utilizziamo nella quotidianità vengono infatti da loro rimodulate e intonate in una maniera sbalorditiva, che destabilizza e disorienta chi ode. Provano le medesime nostre emozioni, soltanto che le comunicano in musica, in modo originale. Rappresentano quindi un caso unico tra i gruppi musicali del Bel Paese.
Stiamo parlando dei Verdena, power trio bergamasco alternative grunge attivo dal lontano 1995. Raccattano verbi, congiunzioni, avverbi, aggettivi, articoli e sostantivi come netturbini del suono, per dare vita a improbabili combinazioni artistiche. D’altronde, chi capisce il cubismo o l’astrattismo? Come Picasso o Kandinskij si può dire che abbiano innovato (almeno dal punto di vista della scrittura dei testi) il campo culturale in cui lavorano, proponendo al pubblico e alla critica cose realmente nuove. Per questi motivi, essi hanno pressoché esposto una nuova corrente artistica nel genere rock dello Stivale.
Una poetica punk contraddistingue il loro sound, adottando un uso davvero originale degli attrezzi del mestieri di una band. Non ha senso decriptare i loro testi: le opere di costoro sono fatte da frasi di contrappunto in cui note e lettere si intrecciano in un gioco alchemico che riesce a ottenere risultati alquanto interessanti. Più che in altri artisti, qui la musica non può slegarsi dalle parole: i due elementi si fondono in composizioni simili a miscugli chimici, che reagendo formano cocktail comunicativi potenti. Nelle strofe e nei ritornelli dei loro pezzi difficilmente troveremo massime o aforismi da incorniciare a mo’ di citazioni, come capita coi grandi cantautori. Allo stesso modo, si fa fatica a rintracciare nella loro produzione discografica delle hit da lanciare nelle classifiche di pop music. Dunque, è difficile individuare i temi dei loro componimenti. Ma la musica dei Verdena tocca i sentimenti, scuote il cuore e fa vibrare l’anima.
Coerenti fin dagli esordi, hanno sempre tirato dritto per la loro strada, senza scendere a compromessi, col loro stile nudo e crudo. Certo, si nota una indubbia evoluzione artistica nel corso del tempo, ma la loro morbida durezza è rimasta intatta, senza lasciarsi scalfire da tendenze del momento. Allora – senza entrare più di tanto nei dettagli tecnici sulla struttura dei loro brani, senza analizzare accordi, melodie o variazioni di tempo che appassionano gli addetti ai lavori e i loro fan più attenti – una cifra di interpretazione delle canzoni dei Verdena può essere quella di capire il significato delle note e ascoltare il suono delle lettere. Lemmi maggiori e minori, in diesis o bemolle; battute (di spirito) e versi (poetici).
Dal punto di vista tecnico, il cantante è capace di sussurrare appena sotto voce al microfono, modulando le corde vocali da crooner afono o, viceversa, di sforzarle in grida da urlatore prossimo alla raucedine. Il basso elettrico e le chitarre si amplificano grazie a distorsioni ed effetti ruvidi e audaci. La batteria percuote piatti e tamburi secondo varie ritmiche, anch’esse parti importanti del linguaggio complessivo. Orchestrano inoltre brani strumentali che sollevano polvere e coriandoli verso il soffitto mediante le onde delle casse acustiche, dove l'odore e il sudore della sala prove diviene incenso in aerosol.
Pronomi, nomi propri e sillabe in rima si mescolano con figure oniriche al rallentatore o accelerate. Arpeggi, assoli e pennate di vocali e consonanti, accenti gutturali; danze di apostrofi e cori dei segni di interpunzione. Sinfonie di tastiere e archi: scale melodiche che girano a spirale proiettando istantanee di un universo surreale. Una raffineria di riff grezzi che fabbrica energia di qualità, tra pulviscoli di sogni e mozziconi, arcobaleni su marciapiedi con pois di chewing-gum, aurore boreali e televideo. Psichedelica sbiadita, arrugginita: lenti in 3D effetto seppia che mostrano le nuvole di fango della realtà.
Titoli enigmatici e accostamenti insoliti di termini: non stupisce che su Facebook circoli un dizionario Verdena-Italiano. Il loro è in effetti un vocabolario piuttosto eccentrico. Il complesso ha escogitato negli anni una tecnica formidabile di costruzione degli album, una galassia semantica che sforza i confini della logica grammaticale. Nella loro stramba analisi del periodo, figure retoriche e sintassi non seguono le regole con cui il nostro orecchio è abituato a sentirle. Parimenti, immagini fuori dal comune si incastrano con proposizioni che battono i nostri timpani e provocano il nostro udito. Un gioco da ragazzi, dada e semiotico, tanto complicato da sfiorare la banalità più assurda. Senza etichette, indipendenti allo stato brado nella provincia rock del panorama italico, i Verdena continuano a suonare la loro storia. 


BIOPHILIA – BJÖRK: autentica musica ambientale




Quest’estate tante persone hanno tifato Islanda durante gli Europei di calcio disputati in Francia, sognando la favola di un’altra squadra cenerentola, sebbene barbuta e tatuata, che al termine di ogni match batte le mani a tempo assieme al suo pubblico durante il cosiddetto haka vichingo dei geyser. La fata norrena Björk viene da qual mondo lì: da quella cultura nordica a stretto contatto con la ricchezza del Pianeta, con buona pace di Giacomo Leopardi il quale, nella celebre operetta morale Dialogo della Natura e di un islandese, esprime il suo romantico e sublime pessimismo cosmico.
Biophilia è infatti il nome di un interessante progetto multimediale della poliedrica artista islandese Björk. Innanzitutto è un album di musica elettronica e sperimentale pubblicato nel 2011, contenente tracce dai titoli evocativi come: Moon, Thunderbolt, Cosmogony, Solstice, Virus, Dark Matter. Oltre alla versione standard, il disco è stato pure confezionato in un'edizione deluxe e in una live, registrata durante il concerto al Manchester International Festival. Da quest’esperienza è anche sorto il film Biophilia Live.
Si tratta in effetti di un onirico inno alla vita: un viaggio acustico e visivo tra macrocosmo e microcosmo, esplorando galassie di suoni e immagini provenienti da tre mondi intimamente intrecciati: Natura, Musica e Tecnologia. L’effetto è un originale collage psichedelico, fluorescente e caleidoscopico, dove l’elemento naturale e quello sintetico si mescolano, dando vita a continue creazioni, che evolvono e mutano in nuove forme seguendo un equilibrio dinamico. Si attraversano così i differenti regni della natura, tra il microscopico e il macroscopico, tra l’infinito e l’infinitesimo, orientati da una bussola audiovisuale i cui punti cardinali sono i quattro elementi naturali della biosfera, cioè acqua, fuoco, terra e aria.
Una ricerca non solo sonora, pertanto, che mischia voci e note, rumori ed energia elettrica, fino a individuare le strutture geometriche dell’universo, che si ritrovano nelle più minuscole particelle della realtà, come un semplice e perfetto cristallo di neve. In questo senso il lavoro di  Björk è avanguardistico, quasi un’opera lirica postmoderna o 2.0. Nell’era dei computer compositori e dei sintetizzatori elettronici e digitali automatici, parte sempre e comunque da un essere vivente l’input primordiale. Ecco uno dei messaggi che s’intende comunicare allo spettatore.
Colori virtuali si innestano allora su giochi di melodie e armonie, tramite strumenti strambi e sofisticati. In questo contesto acquista notevole rilevanza il ruolo delle percussioni in quanto dispensatori di ritmo. Le battute temporali diventano perciò il simbolo del battito del cuore, che trasmette vibrazioni e pulsazioni all’organismo. Torna dunque in mente la celebre L’Ombelico del Mondo di Jovanotti: esempio paradigmatico di world music, metafora del grande tamburo planetario al centro della Globo, che unisce popoli di culture diverse. Un po’ come capita nella pancia della mamma, e nel grembo della Madre Terra.
C’è anche da dire che la stessa Björk aveva già pubblicato nel 2008 un singolo, in qualche modo ecologico, ossia Náttúra, per promuovere il rispetto dell'ambiente. Tutti i proventi del brano erano stati donati alla Náttúra Foundation. Sempre legato al progetto “Biophilia” è inoltre stato ideato Biophilia Educational Project: app per smartphone e sito web dedicati alla trasmissione delle idee diffuse dall’eclettica artista scandinava. Musica d’ambiente e amore per la vita. Musica per la vita e amore per l’ambiente.