martedì 29 novembre 2016

Benvenuti a Italia: città fantasma della Florida

Esiste un'Italia negli Usa. E non si tratta di Little Italy, e nemmeno delle comunità di connazionali emigrate – magari da generazioni – nel Nuovo Mondo, che ogni anno celebrano il Columbus Day per ricordare la Madre Patria – magari ancora baciando le mani a qualche padrino. Si tratta invece di un villaggio situato nella Contea di Nassau, nello Stato della Florida.


In realtà, non è una città vera e propria, ma un cosiddetto census-designated places, che sta per "area non incorporata", ossia un posto che a differenza di city, town e villagenon possiede un modello amministrativo legalmente riconosciuto. Adesso Italia è pressoché un non-luogo: ma vanta una storia che merita qualche cenno.



L'Italia d'America


Italia fu fondata nel 1882 da un imprenditore di origine irlandese chiamato William MacWilliams, che scelse quel nome perché la località ricordava il Bel Paese, in virtù del suo clima temperato e della forma peninsulare della Florida, non a caso soprannominata all'epoca "L'Italia d'America".

Precisamente, il sito si trovava al 18º miglio della Florida Transit Railway. Il proprietario della ferrovia, un certo senatore David Yulee, persuase MacWilliams a erigere in quel punto una fabbrica di mattoni, promettendo di comprare subito un milione di laterizi.

Così a Italia spuntarono oltre all’impianto anche un deposito, un ufficio postale e un emporio. Il piccolo villaggio iniziava a svilupparsi economicamente, tant’è che l’anno successivo, tale Nathan Levan edificò uno stabilimento di scandole in legno per tetti, e tale Andrew Higginbotham vi realizzò una segheria. Il risultato è che nel 1885 il sobborgo Italia vantava oltre 100 abitanti.




Fine della corsa


Le attività economiche del villaggio iniziarono piano piano a brulicare. Nel 1905 Thomas Shave vi si trasferì dalla Georgia per costruire una distilleria di trementina, una resina particolare che si ottiene dall’incisione di un albero. In seguito Shave lasciò la fabbrica al figlio di Higginbotham, quello della segheria e, in pochi anni, la trementina divenne il prodotto tipico di Italia.


Tuttavia, la principale fonte di ricchezza di Italia rimaneva sempre la vecchia ferrovia, grazie alla quale i manufatti locali raggiungevano i mercati. Finché, intorno al 1920, la tratta dei binari fu deviata, tagliando fuori Italia. Perciò, le attività produttive furono costrette a serrare i battenti, o a trasferirsi in zone migliori. Un ultimo tentativo di rianimare l’economia di Italia fu tentato negli anni ’30, quando venne realizzata la State Route 200, la nuova superstrada parallela alla ferrovia. Ma ormai era troppo tardi: il sogno della piccola Italia era già sfumato; essa andava ad aggiungersi alle altre ghost town d’America.


venerdì 18 novembre 2016

Bob Dylan e comunicazione ambientale

Oramai è diventata virale la notizia del “gran rifiuto” di Bob Dylan (nato Robert Allen Zimmerman) ai “parrucconi” di Svezia. Così, se la consegna del Nobel al menestrello del rock già aveva acceso un vivace dibattito tra apocalittici e integrati sulla musica come forma di letteratura, adesso la vicenda si è fatta ancora più scottante.
Proprio nel momento in cui il miliardario Donald Trump – secondo il quale il cambiamento climatico risulta nientepopodimeno che una “cavolata” – pare allora interessante indagare il contributo di Dylan, se non alla letteratura più alta, per lo meno alla comunicazione ambientale.


Il La del movimento ecologista Usa

Effettivamente, l’epoca in cui Dylan ha iniziato la sua carriera artistica ha dato, per così dire, il La al movimento ecologista statunitense, amplificando i malumori del periodo. Durante i cosiddetti Sixties, infatti, la gente incominciò a sperimentare modelli di vita alternativa più vicini alla natura, grazie anche al fatto che alcuni temi ambientali furono introdotti al grande pubblico dalle canzoni di Pete Seeger, Jimi Hendrix, Joni Mitchell e, appunto, Bob Dylan.

Nel 1963, per esempio, Dylan incise A Hard Rain’s A-Gonna Fall, dove viene toccato il tema del rapporto tra uomo, tecnologia e natura. Il brano diede voce alla paura diffusasi tra le persone a causa della corsa agli armamenti atomici. In questo caso, Bob Dylan riuscì a fondere in un nuovo prodotto di massa, destinato al mercato discografico, la popular music e la canzone di protesta a stelle e strisce.


Aria tossica a casa nostra  

Già dai primi versi del pezzo si respira una sensazione di olocausto atomico, descrivendo le malefatte nucleari degli uomini contro una natura incontaminata. L’immagine di un paesaggio di morte e desolazione stride perciò con la dolce armonia degli accordi di chitarra. Il cantautore, in altre parole, intravide i pericoli insiti in certe attività umane, che mettono a repentaglio la salute del pianeta (e dell’uomo stesso ovviamente), comunicando con note e parole la tetra visione di un futuro incerto per la sopravvivenza dell’ecosistema terrestre – la nostra Home Sweet Home.
E cosa succederebbe, allora, se ci risvegliassimo e scoprissimo all’improvviso che il futuro cantato da Dylan assomiglia al nostro presente? La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento…



mercoledì 9 novembre 2016

Syria (1° novembre 2016)


Fuori ci sono le bombe
e io non ho più casa.
Solo pietre e detriti,
macerie di cielo e sogni infranti,
petali arrugginiti e brandelli di versi sbiaditi.
Non esiste più un dentro e un fuori,
notte e giorno, un alto e un basso,
un giusto e sbagliato.
Il fumo copre il sole e le stelle,
le nuvole salgono dalla terra
e il fuoco esplode in tramonti di sangue e fango
su questa mezza luna sterile.
Corpi accartocciati 
e urla incastrate nel cemento,
tra ferro cartucce e mortai.
Il vento puzza di gasolio
e porta sabbia del deserto
e frammenti di conchiglie 
dalle spiagge dorate,
insieme ai cristalli di sale delle rocce amaranto
e ai canti dipinti dalle onde del mare,
e foglie e danze e spezie.

Qui ci sono le bombe
e io non ho più casa.
Qui c’è la guerra
e io non ho più pace.
So che nella notte
i fiori risorgono 
per brillare di luce e rugiada,
come verdi diamanti,
gemme di silenzio.

martedì 1 novembre 2016

In guerra per amore di Pif: la “iena” che ride e commuove

Il sentimento che tutto move, e la più ignobile delle nefandezze umane. Come si può portare l’amore nel bel mezzo della guerra? Solo un ingenuo sognatore come Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto: regista, attore, conduttore televisivo e radiofonico) poteva riuscirci.

In guerra per amore è il suo secondo (capo)lavoro, dopo l’altrettanto più che riuscito La mafia uccide solo d’estate (recentemente trasportato in formato serie tv dalla Rai). Il Peter Pan dello schermo italiano dimostra nuovamente la sua intelligente bravura e le sue doti artistiche, presentando un importante episodio della storia nostrana – la “liberazione” della Penisola per mano dell’esercito statunitense – in una chiave pedagogica ma non didascalica, toccante ma non patetica.


Ciò che, più di ogni altra cosa, è apprezzabile dello stile di Pif è senz’altro la capacità di parlare al Pubblico con la “P” maiuscola, nel senso che riesce a comunicare attraverso un registro linguistico fruibile da un ampio spettro di spettatori – che sono poi i paganti ai botteghini che tengono in vita i cinema e il cinema. Tuttavia, senza strizzare l’occhiolino al becero populismo qualunquista. Anzi, il suo è un cinema impegnato civilmente e politicamente, nell’originaria accezione del “vivere insieme”.

Il film è allora una commedia drammatica, in grado di smuovere le coscienze della platea, incastrando abilmente scene divertenti e momenti tragici, battute ironiche e fotogrammi colti (vedi la messinscena della celebre fotografia di Robert Capa, scattata proprio in Sicilia nel 1944. Oppure la fine del duce Benito Mussolini, il quale finisce appeso a testa in giù sullo stendibiancheria di un davanzale, condannato dall’esasperazione di un popolo illuso e affamato).


La famosa fotografia di Robert Capa a Troina, in Sicilia:
un contadino mostra a un soldato americano la direzione presa dai tedeschi. Da http://www.comune.troina.en.it/robert_capa.html 

Il Testimone di MTV documenta così una testimonianza poco nota della storiografia tricolore: la commistione tra mafia e Yankees nella ricostruzione post bellica. Creazione e distruzione. L’Italia si costruisce grazie all’aiuto dei forestieri americani, mentre viene disfatta da quegli italiani fantocci, manovrati come pupi dai connazionali emigrati padrini d’oltreoceano.

Il racconto della cinepresa segue perciò le gesta coraggiose e le scelte esemplari di uomini e donne che hanno cercato stoicamente di salvare il nostro Paese dalle malefatte della criminalità, organizzata o meno. Vengono poi toccati di lato vari temi, come l’omosessualità in un epoca (…) dov’era un tabù; la condizione femminile e la questione meridionale, oltre ai tic e ai vetusti problemi del Sud della Stivale.

L’amore per Flora, l’adorata del protagonista, diventa così ardore per la patria, ma spogliata di ogni nazionalistico e sciovinistico decoro militare. Insomma, un film patriottico e non patriottistico, che proietta ideali privi di ideologia.


In conclusione, Pif si cala ancora una volta nella parte del sempliciotto ragazzo di campagna, con quel sorriso un po’ scimunito, e quell’espressione un po’ così, ma con gli occhi che brillano e il cuore grande, capace di modellare plasticamente i lineamenti della maschera facciale delle persone facendole ridere, piangere, comprendere, agire. Per il Bene, la Pace, la Libertà e la Giustizia di questa Terra.

Fabio Dellavalle